I miei ultimi tre anni in Aspromonte, tra presunti colpevoli e decine di innocenti

Ho imparato a conoscere l'Aspromonte come una terra dove, sebbene la ‘ndrangheta sia un’erbaccia da estirpare, molti fanno di tutto per provare, giorno per giorno, a togliersi di dosso quel marchio

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Quando ho deciso di trasferirmi dal Piemonte all’Aspromonte ho riflettuto a lungo su quante volte, nel resto della mia vita, mi sarei potuta pentire di questa scelta. Ma a dire il vero ero certa che i dubbi, così come sarebbero sicuramente arrivati, se ne sarebbero andati. E così è stato sempre.

Sempre, fino al 25 febbraio 2020. Quando quella mattina finirono in manette amici e conoscenti, tra Sant’Eufemia d’Aspromonte e Sinopoli, mi chiesi per diversi giorni cosa ci facessi io lì, e se per caso mi fossi sbagliata nel giudicare persone che ritenevo perbene e soprattutto preziose per un territorio troppo spesso visto dall’esterno solo come terra di confine, come terra del malaffare e della speranza inesistente. Mi diedi diverse risposte a questi dubbi, spesso contrastanti tra loro. Io avevo imparato a conoscere quella terra – dove la ‘ndrangheta è sicuramente un’erbaccia da estirpare – come un luogo dove molti facevano di tutto per provare, giorno per giorno, a togliersi di dosso quel marchio. E lo facevano con la laboriosità, col saper fare, col mettersi in gioco sempre.

Alla fine decisi di andare a fondo. E lessi. Lessi l’ordinanza dell’operazione Eyphemos, lessi le considerazioni degli inquirenti. Ascoltai cosa avevano da dire alcune delle persone direttamente coinvolte, cercai di capire chi era sincero e chi no. Evitai, come la peste, di leggere articoli di colleghi dai titoloni altisonanti tipo: “In Aspromonte tutto è ‘ndrangheta”, o ancora “La guerra fredda in Aspromonte”. Parole assurde, quasi da querela, a pensarci ora.

Scrissi, fin da subito, ciò che pensavo, ciò che sapevo, ciò che avevo ascoltato e letto. Poi, poco più di un anno fa, compresi che era il momento di tacere e restare in attesa. In attesa di una sentenza che, speravo, avrebbe ridato giustizia a decine di innocenti sbattuti in carcere come fossero i peggiori tra i criminali. Una sentenza che avrebbe ridato il sorriso a decine di bambini che all’improvviso, poco oltre le 3 di notte, si erano visti portare via i genitori senza alcuna ragione. Così, come un fulmine a ciel sereno. Su coloro che conoscevo personalmente, e che erano stati arrestati, avrei messo la mano sul fuoco in merito all’innocenza e lo misi nero su bianco fin dal primo istante. Ma andando ancora più a fondo della questione, sentendo avvocati e leggendo intercettazioni, capii che gli errori – sempre per usare un eufemismo – erano stati commessi nei confronti di tanti altri. Tanti.

Tra gli arrestati c’era anche chi, anni fa, dovette lasciare la propria terra d’origine per recarsi al Nord dove il lavoro era un obiettivo sicuramente più raggiungibile rispetto alla provincia reggina. Il danno umano e professionale, in questo caso come in tanti altri, è stato enorme. Questo, a riprova del fatto che è difficile staccarsi di dosso il marchio di cui parlavo prima, anche se si vive in maniera retta e corretta, tra mancanze affettive e sacrifici, a migliaia di chilometri dai propri cari. Come se ognuno dei figli di questa terra debba pagare colpe ataviche per azioni sbagliate commesse sul proprio territorio da altri.

Molti, lo scorso venerdì 17 gennaio, hanno avuto giustizia. Ma non è finita qui: sono certa che il secondo grado di giudizio ci riserverà altre sorprese. Perché così come ero convinta nel 2020 che il processo avrebbe ristabilito un po’ di verità, sono altrettanto convinta oggi che tra i condannati in primo grado del processo Eyphemos diversi vedranno le loro posizioni sciogliersi in futuro. Di persone che per questa vicenda stanno pagando colpe non loro ce ne sono ancora, purtroppo. Non si può e non si deve pensare che la questione si sia chiusa la scorsa settimana. E il motivo è presto detto: questa indagine è stata così confusa, così contorta e ha visto così tanti strati di menzogne alternate e mezze verità, che sbrogliare la matassa, anche per il migliore degli avvocati, è stato ed è difficile. Sebbene un primo grande passo sia stato fatto, di persone che ancora devono avere giustizia ce ne sono altre. Basti pensare che il processo con rito abbreviato iniziato nei giorni scorsi, sempre nel contesto di questa operazione, beneficerà sicuramente di diverse sentenze di assoluzione sancite dal rito ordinario in primo grado.

E quando accadrà io sarò qui, ancora, a raccontare una verità che a quanto pare non interessa ai più. Certo, è stato molto più accattivante e rassicurante leggere frasi come “in Aspromonte sono tutti mafiosi”, invece che leggere “gli investigatori hanno preso un’enorme cantonata e a fronte di uno sparuto numero di colpevoli arrestati ci sono decine di innocenti finiti in carcere senza motivo”. Ma poco importa quanta presa faccia questo sull’opinione pubblica. Il mio lavoro è quello di raccontare la verità, e questo farò sempre.

Anche perché, giova ricordarlo per chi sulla pelle e sulla reputazione altrui tende ad essere piuttosto’ smemorato’, la presunzione d’innocenza è un principio del diritto penale imprescindibile, secondo il quale un imputato è considerato non colpevole sino a condanna definitiva, ovvero fino all’esito del terzo grado di giudizio emesso dalla Corte Suprema di Cassazione (art. 27, comma 2 della Costituzione).

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