Che succede alla riforma previdenziale?

Siamo quasi alla fine di marzo e la promessa riforma dell’Esecutivo di una riforma equa e strutturale della previdenziale sembra si stia allontanando e sia finita su un binario morto

StrettoWeb

Siamo quasi alla fine di marzo e la promessa riforma dell’Esecutivo di una riforma equa e strutturale della previdenziale sembra si stia allontanando e sia finita su un binario morto. Dopo che per mesi sia in campagna elettorale che nelle dichiarazioni di vari rappresentanti della maggioranza si evocavano interventi strutturali con particolare riguardo alla flessibilità in uscita, un giusto riconoscimento ai lavoratori precoci e concessione di pensioni di garanzia per chi ha avuto carriere frammentate come giovani e donne, oltre a dare una forte implementazione alla previdenza complementare, da oltre un mese su questo importantissimo argomento che interessa milioni di cittadini, assistiamo da parte del Governo ad un pericoloso silenzio.

Quello della riforma previdenziale è un argomento che a parole tutti i Governi che si sono succeduti dall’approvazione della legge Fornero in poi hanno messo tra le priorità da attuare per superare una legge imposta dall’Europa che si è rivelata troppo rigida e approvata in un contesto diverso dall’attuale, ma di fatto, negli anni poco è stato realizzato. In questi ultimi anni sono stati attuati solamente degli interventi sulla flessibilità in uscita applicando le cosiddette “quote”, prima la famosa “Quota 100” (38 anni di contributi sommati ai 62 anni di età) per il triennio 2019-2020-2021, successivamente per il solo anno 2022 la “Quota 102” (38 anni di contributi sommati ai 64 anni di età) e per questo 2023 la “Quota 103 (addirittura 41 anni di contribuiti sommati ai 62 anni di età) che si sono dimostrate troppo rigide e divisive in quanto permettevano l’accesso al pensionamento solamente alle lavoratrici e ai lavoratori che avessero centrato “l’ambo secco” composto dai contributi sommati all’età anagrafica senza essere “libere” cioè con la possibilità di raggiungere la quota richiesta in qualsiasi modo.

In un mondo già enormemente divisivo, con grosse diseguaglianze nel passato tra dipendenti privati e pubblici, categorie con lavori gravosi o usuranti dove alcune sono rappresentate ed altre no e dove ancora esistono notevoli differenze per l’accesso al pensionamento, per esempio, per i militari e forze dell’ordine questo sistema delle quote si è rivelato iniquo, nei confronti, in particolare, delle donne che hanno carriere discontinue e faticano a raggiungere gli anni di contribuzione richiesti. Proprio per superare questa difficile situazione delle donne da anni è consentito ad esse di uscire dal mondo del lavoro con un istituto chiamato “Opzione Donna” che consente alle donne che possiedono almeno 35 anni di contributi sommati ai 58 anni d’età se dipendenti e 59 se lavoratrici autonome di accedere al pensionamento accettando però che il calcolo dell’assegno previdenziale sia effettuato totalmente col calcolo contributivo, più penalizzante e che comporta una diminuzione dell’importo intorno al 25%.

Questo istituto rinnovato di anno in anno e che il Governo Meloni aveva promesso di rinnovare nella sua integrità è stato completamente stravolto alzando di due l’anni l’età per accedervi, ridotto poi di un anno per ogni figlio fino ad un massimo di due e destinandolo solamente a “caregiver” di un familiare convivente, alle invalide almeno al 74% e alle lavoratrici licenziate o impiegate in aziende che hanno dichiarato lo stato di crisi. In pratica è stato destinato solamente a donne svantaggiate riducendo drasticamente il numero delle possibili beneficiarie che è crollato da circa ventimila a poco più di mille.

Dopo le sacrosante proteste delle donne sembra che ora l’Esecutivo voglia in parte fare marcia indietro su questo singolo istituto, ma sicuramente non sembra abbia quella volontà espressa nei mesi scorsi a parole di attuare quella riforma previdenziale equa e strutturale che dia garanzie ai lavoratori precoci, ai giovani e alle donne privilegiando invece altre riforme come quelle del fisco e della giustizia che, seppure importanti, sarebbero da attuare entro la fine della legislatura dando priorità, invece, ad una riforma, quella previdenziale, assolutamente necessaria per la vita dei cittadini italiani e che non può essere, come succede da anni, più procrastinata.

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