Quel primo maggio in cui morì Ayrton Senna e un’adolescente imparò a sognare

Si può imparare a sognare guardando il dolore? Il primo maggio del 1994 e la morte di Ayrton Senna non solo mi hanno insegnato che si può, ma che si deve. Per vivere pienamente

StrettoWeb

Quando Senna mi insegno a vivere.
Ventinove anni fa, il primo maggio, fui operata di appendicite. Un’operazione di routine per una dodicenne quale ero all’epoca, ma fatta d’urgenza perché rischiavo una peritonite. Come in un vecchio film dalla immagini ovattate ricordo tutto di quei momenti, in ogni minimo particolare: la sensazione dell’anestesia totale che mi accompagnava pian piano in uno stato di torpore dei sensi, i volti dei medici intorno a me in sala operatoria prima di addormentarmi, il risveglio in stanza e le voci sommesse dei miei cari.

Ma c’è una cosa di quel giorno che ricordo molto più di tutto il resto. In questo caso però, il ricordo non è offuscato, ovattato, lontano: è più vivido e concreto che mai. Al risveglio dall’anestesia seppi che era morto Ayrton Senna. Seppi che uno dei più grandi campioni che io in quegli anni, grazie a mio padre, seguivo assiduamente, era andato via per sempre.

Piansi per tutto il giorno e per tutta la notte. Sicuramente i miei sentimenti erano amplificati dal contesto in cui mi trovavo, ma non riuscivo a fare a meno di pensarci. Quel magone e quella tristezza, quando ripenso a quei giorni e a Senna, non mi abbandonano ancora oggi. E mi basta vedere la sua foto o sentirlo nominare per tornare in quel letto dell’Ospedale Maggiore di Novara, dove per la prima volta in vita mia mi chiesi che senso avesse vivere, se poi la fine poteva essere così repentina e senza via di scampo.

Non era epoca di smartphone, quella, e i così noti aforismi attribuiti a questo o a quel personaggio pubblico non erano così tanti e virali come oggi. Anni dopo, con l’avvento dei social, mi è capitato un giorno, sempre un primo maggio, di trovare una frase attribuita proprio a Senna, che mi ha illuminata. O meglio: in quel momento ho forse compreso il motivo per cui piansi così tanto per uno sconosciuto. Perché a mio avviso le casualità non esistono.

In quei giorni della primavera del 1994 trascorsi in ospedale, intorno a me, c’erano ragazzi della mia stessa età, o addirittura più piccoli, che soffrivano. Alcuni tanti, altri meno. Io restai lì pochi giorni. Ma ricordo bene di un mio coetaneo, col quale strinsi amicizia, che era nella stanza vicino alla mia, la numero 16, da ben tre mesi. Per una patologia ben più ostica della mia. Soffriva, ma era sempre sorridente. Sempre. Quando non poteva alzarsi dal letto per venirmi a trovare e chiacchierare un po’, bussavamo alla parete che avevano in comune le nostre stanze. Avevamo messo a punto una sorta di codice: “Buongiorno“, bussi quattro volte. “Vieni, devo dirti una cosa“, bussi tre volte. “Ora non posso muovermi dal letto“, bussi due volte. “Mi manchi“, bussi una volta.

Intorno a noi, c’erano bambini ben più piccoli di noi e genitori in pena. E si vedeva sebbene cercassero di dissimulare le loro paure. Ma bastava guardarli negli occhi per capirlo.

Ebbene, quella frasi attribuita ad Ayrton Senna che scoprii anni dopo, da quei giorni d’ospedale in poi, inconsapevolmente, diventò un po’ il mio modus vivendi.

Se una persona non ha più sogni, non ha più alcuna ragione di vivere. Sognare è necessario, anche se nel sogno va intravista la realtà. Per me è uno dei principi della vita“, disse un giorno il campione di Formula uno.

Ecco cos’era, quel magone che avevo quel 1 maggio 1994.
Era morto, in modo violento, un sognatore come me.
E tra noi ci riconosciamo al volo: non siamo sconosciuti.
Siamo gente che ama questo mondo quanto ama il proprio respiro, e lo guarda con gli occhi di un bambino.
Anche nel dolore e nella sofferenza.
Me lo ha insegnato Ayrton Senna.

Condividi