Noi amiamo la nostra Costituzione. Ma, per amarla, non basta credere che essa sia la più bella del mondo e, per difenderla, non basta arroccarsi sul non si tocca! Se veramente la amiamo, dobbiamo sapere riconoscerne e curare i difetti congeniti o acquisiti. Tutte le costituzioni, anche le più longeve, hanno subito trasformazioni radicali; contrariamente a quanto generalmente si crede, quella degli Stati Uniti d’America è stata modificata più volte: nel ‘Bill of rights’, nel modello dei rapporti federali, nel sistema di elezione del Presidente e dei senatori e così via.
In Italia, il dibattito sulle riforme costituzionali, aperto da molti anni, almeno da quando Bettino Craxi parlò di grande riforma, rischia di giungere ancora una volta a un punto morto; la confusione, per la verità, è grande e ogni proposta di riforma istituzionale si scontra con i veti incrociati delle varie fazioni.
Che sia un dibattito tra sordi non è dovuto solo alle differenze culturali delle parti bensì soprattutto al calcolo, miope, che ciascuna di esse fa della propria convenienza.
Oggi sono in campo la proposta di elezione diretta del Presidente della Repubblica – che già, quando 60 anni fa veniva proposta da Randolfo Pacciardi, grande combattente contro il fascismo, fu respinta come pericoloso veicolo di autoritarismo e, addirittura, di involuzione fascistica – e la realizzazione dell’autonomia differenziata prevista dall’art. 116 della Costituzione.
Dopo il primo incontro tra i partiti svoltosi il 9 maggio scorso sul tema delle riforme istituzionali, insieme ai niet sdegnosi dell’opposizione – soprattutto nell’inner circle schleiniano – abbiamo sentito farneticazioni varie, prima fra tutte che la riforma costituzionale non è una priorità del ‘paese’. Che lo dica la Schlein non ci sorprende perché tutti conosciamo i limiti del suo programma – lgbtq+ e moto perpetuo – né ci sorprende che lo facciano gli altri perché, detto tra di noi, è troppo chiedere ai protagonisti del trasformismo ‘pilotato’ di questi ultimi dieci anni che seghino il ramo sul quale sono seduti.
Una tale affermazione ci lascerebbe del tutto indifferenti se non fosse il sintomo di una ben più grave malattia che ha inceppato il corretto e sano funzionamento della società e dell’economia. Ma come? Non è vero che, a partire dalla questione del PNRR, è l’Europa a chiederci le riforme? E non si può pensare che le riforme da fare siano ben più ampie e propedeutiche di quelle finora messe in campo a questo proposito?
O dobbiamo pensare che la priorità sia quella di mobilitare il paese e tenerlo incatenato con qualche ‘sciopero generale’ per contestare la misura della riduzione del ‘cuneo fiscale’ o le causali dei ‘contratti a termine’ stabilite dal governo?
Da ultimo, nella partita è stato calato un asso piglia tutto: una accreditata portavoce della sinistra nei salotti televisivi addomesticati, una ‘filosofa’ emerita, ha attaccato come un toro infuriato il ‘centro-destra’ per avere osato avanzare una tale proposta: “Perché è così caro al centrodestra il tema del presidenzialismo? Perché è cara l’idea dei pieni poteri, del potere forte, del capo, una concezione leaderistica della politica. Io trovo che questa mossa di Giorgia Meloni sia una mossa allarmante perché arriva in un contesto drammatico. Siamo in guerra, c’è una cobelligeranza dell’Italia a tutti gli effetti, c’è un contesto interno molto inquietante, che è quello del primo governo post-fascista e anziché governare con una linea politica chiara adesso viene fuori il presidenzialismo. Mi chiedo perché gli italiani lo vogliono. Forse non è il desiderio di maggior partecipazione? Ci sentiamo troppo impotenti, rassegnati. E allora qui il problema è rafforzare la democrazia non indebolirla”. Rafforzare la democrazia! È questa l’unica affermazione sensata fatta dalla povera, disperata ‘filosofa’.
Siamo d’accordo! Cosa c’è di meglio per rafforzarla che fare votare la gente per scegliere i governanti, naturalmente in un contesto di garanzie costituzionali, e sottrarre così il governo ai giochi di palazzo che hanno caratterizzato gli ultimi anni della vita della Repubblica?
Uno degli argomenti più usati dagli ‘oppositori’ dell’elezione diretta del Presidente della Repubblica è che non si deve in alcun modo toccare il ruolo di garanzia affidato dalla Costituzione al Presidente.
Condividiamo la difesa di questo ruolo di garanzia che, sia pure strumentalmente, fa il PD avendo un suo uomo al Quirinale (quando c’era Cossiga, il PCI lo voleva mettere in stato d’accusa e Leone venne ingiustamente travolto dai alcuni sicari mediatici) ma non lo condividiamo fino al punto da ritenere intoccabili le norme che lo regolano: a mio avviso, se si modificasse la posizione costituzionale del Presidente le garanzie costituzionali non ne soffrirebbero; come si sa, esse sono affidate a un sistema complesso di bilanciamenti e la migliore garanzia contro l’abuso del potere non sta in una singola istituzione – sia essa la Presidenza della Repubblica o la Corte Costituzionale – bensì nel potere diffuso, cioè in quelle autonomie che, proprio per questa loro funzione, il potere totalitario (fascista o comunista) aborrisce.
Né condividiamo l’interpretazione della costituzione che ha avallato l’intromissione del Presidente della Repubblica nella determinazione della linea politica del governo: non ci pare che rientri nel ruolo di garanzia del Presidente il cosiddetto ‘governo del Presidente’: la stessa nomina del Presidente del Consiglio infatti non dipende da una autonoma volontà del Presidente della Repubblica bensì dalla volontà della maggioranza parlamentare; un governo di unità nazionale o di ‘grande coalizione’ nasce dalla volontà dei rappresentanti del popolo e non dalla ‘saggezza’ del Presidente; né ci pare che rientri nei suoi poteri concorrere alla scelta dei ministri in ragione di una qualsiasi linea politica (per esempio in materia di politica monetaria o di trattati internazionali). Tutto ciò è oltre la Costituzione, anzi è contro la Costituzione.
Tale prassi ha fatto parlare addirittura di un presidenzialismo di fatto e non so se la mitizzazione della ‘saggezza’ del Presidente guardiano della costituzione non sia in qualche modo l’effetto di una malintesa lettura della dottrina schmittiana del presidente-guardiano che assume la dittatura temporanea.
Comunque, a questo proposito e a prescindere dalla ‘grande riforma’, un chiarimento costituzionale e anche una revisione dei poteri del Presidente della Repubblica sono improcrastinabili e necessari: non ci sarebbe nulla di male se si chiarisse il ruolo che egli ha nella nomina del Presidente del Consiglio e dei ministri e si desse una definizione delle altre funzioni che espongono il Presidente a responsabilità amministrative e politiche per esempio come Presidente del CSM: si dovrebbe o renderlo pienamente partecipe e responsabile di quanto vi accade – e ciò sarebbe impossibile – o, se questa carica è solo un orpello, bisognerebbe togliergliela.
D’altra parte, se l’elezione diretta del Presidente della Repubblica può risolvere qualcuno dei problemi di governabilità del nostro sistema, è chiaro che essa implica una trasformazione costituzionale radicale; se si volesse andare in tale direzione, si dovrebbe anzitutto cambiare l’assetto dell’esecutivo, attualmente dipendente dalla fiducia del Parlamento, e conferire al Presidente della Repubblica non più la funzione di garanzia costituzionale ma il potere di direzione politica, per esempio come negli Stati Uniti o, in maniera diversa, come in Francia. Ma, comunque ciò sia, se il presidente deve divenire il capo dell’esecutivo, occorrerebbe in primo luogo spogliarlo del privilegio della irresponsabilità che gli conferisce l’art. 90 della Costituzione e privarlo del potere di scioglimento delle Camere e della presidenza del CSM.
Bisognerebbe prevedere un diverso equilibrio tra legislativo, esecutivo e giudiziario; bisognerebbe, insomma, rendere efficace, funzionale e funzionante il sistema di separazione, equilibrio e controllo reciproco dei poteri dello stato, soprattutto per far valere il principio di responsabilità dei governanti, che sta a fondamento del costituzionalismo. Altrettanto necessario sarebbe, in questo caso, sia il mantenimento del bicameralismo – che, a mio avviso, dovrebbe essere fondato su una base della rappresentanza e un sistema elettorale diversi per le due Camere – sia il rafforzamento delle autonomie – differenziate o ‘speciali’ che siano – contro il quale tutta la sinistra invece si batte come un sol uomo adducendo che si provocherebbe una spaccatura del Paese.
Ma non fu la ‘sinistra’ a introdurre nella Costituzione il principio dell’autonomia differenziata con la modifica dell’art. 116?
Perché lo fece? Solo per inseguire la sua ‘costola’ e sanare la perdita di voti che stava subendo?
E poi, che prove si possono portare in favore del centralismo che ci governa da 150 anni? Non è stato sotto il centralismo che si è prodotta la spaccatura tra le due, o tre, Italie?
La manina che ha pubblicato il documento del ‘Servizio del bilancio del Senato’ secondo il quale «nel caso del trasferimento alle Regioni di funzioni oggi svolte dallo Stato – e delle relative risorse umane, strumentali e finanziarie – ci sarebbe una forte crescita del bilancio regionale ed un ridimensionamento di quello statale, col rischio di non riuscire a conservare i Livelli essenziali delle prestazioni (Lep), in tutte le Regioni», rivela uno ‘sprezzo del pericolo’ veramente alto perché getta discredito su tale Servizio: infatti l’autonomia serve esattamente a fare svolgere alle Regioni i servizi che oggi svolge lo Stato trasferendo ad esse le risorse necessarie nella stessa misura in cui queste sono in atto gestite dallo Stato per ciascuna Regione. Quindi, per esempio alla Lombardia come alla Calabria andrebbero gli stessi finanziamenti in atto ad essa attribuiti: sarà compito di ciascuna Regione gestirgli al meglio.
Ma che cosa rivelano queste critiche se non ciò che fino ad oggi è mancato: l’eguaglianza delle prestazioni; cioè che, in atto e senza le autonomie ‘differenziate, il livello di queste prestazioni è diverso nelle varie Regioni.
Queste critiche rivelano esattamente il contrario di quello che gli anti-autonomisti vorrebbero dimostrare.
Ferme restando le autonomie e rispettandole, spetta allo Stato promuovere l’eguagliamento delle prestazioni con i dovuti finanziamenti alle Regioni più bisognose. E, comunque, per sanare le diseguaglianze tra le regioni non si può prevedere un sistema di ‘internal improvements’ gestito dal governo centrale come accade nelle federazioni serie?
Alcuni, opponendosi al presidenzialismo, sostengono che questo funziona solo dove il sistema è bipartitico, come negli Stati Uniti, e quindi siccome noi, grazie a Dio, abbiamo un multipartitismo, sia pure estremo, non potremmo adottare un tale sistema di governo.
Ma se è vero che, perché il presidenzialismo possa funzionare, è meglio che vi sia un sistema bipartitico, dobbiamo dire però che l’esistenza di un sistema multipartitico non è una ragione per rifiutarlo: il sistema bipartitico non è calato dal cielo; negli Stati Uniti come in Gran Bretagna, il bipartitismo non è imposto ma è l’effetto del confronto politico: l’alternanza tra i partiti al governo è, solitamente, tra i due partiti preponderanti e tali non per norma di legge ma per effetto di una dialettica elettorale tra molti partiti, tutti totalmente liberi di raccogliere il consenso e tutti soggetti alla regola della maggioranza come base della loro rappresentatività. Come diceva Ferdinand Hermens, il concetto stesso di rappresentanza proporzionale è sbagliato perché è separato dal concetto di integrazione, che è indispensabile per la gestione del governo.
Da questo punto di vista, non v’è dubbio che si renderebbe necessaria una riforma della legge elettorale in modo da favorire una tale dialettica: non avrebbe senso e sarebbe fonte di gravi complicazioni e pericoli per la stabilità del sistema stesso, eleggere il presidente su base maggioritaria e il legislativo su base proporzionale: la famosa governabilità e stabilità che dovrebbe entrare dalla porta principale con l’elezione diretta del presidente, uscirebbe immediatamente dalla finestra se il legislativo venisse lasciato nelle condizioni attuali di rissoso frazionamento e di instabilità delle maggioranze parlamentari. E dunque, il problema non è il presidenzialismo ma la legge elettorale.
L’altra ipotesi di riforma in campo sarebbe l’elezione popolare diretta del Presidente del Consiglio; ma questa, a mio avviso, presenta molte incongruenze e difficoltà: l’equilibrio costituzionale tra un Presidente del Consiglio eletto dal popolo e un Presidente della Repubblica di estrazione parlamentare sarebbe certamente più complicato e, quando si verificasse una possibile frattura tra il Presidente del Consiglio e la maggioranza parlamentare, sarebbe più difficile anche un equilibrio con il Parlamento, soprattutto se eletto su base proporzionale.
Un’alternativa possibile alle misteriose liturgie quirinalizie e alla farraginosa procedura di nomina del Presidente del Consiglio potrebbe essere la sua elezione da parte delle due Camere in seduta comune; la fiducia al governo potrebbe essere revocata dalle Camere che però dovrebbero essere sciolte contestualmente (simul stabunt, simul cadent) con l’indizione di nuove elezioni da svolgersi entro un mese o nel più breve tempo possibile.
Concludo osservando che, oltre a queste riforme istituzionali, sarebbe necessaria un’altra e forse più decisiva riforma della politica: la riduzione e delimitazione dell’attività dello Stato, della sua ingerenza nell’economia e nella società in tutte le sue articolazioni ed espressioni’ (dallo sport alla salute; dagli spettacoli alla cultura, all’editoria, alle comunicazioni di massa, alle banche, etc.), che poi è ingerenza e attività dei partiti politici, è espansione della cosiddetta partitocrazia, è espansione della spesa pubblica, in debito. Ma temo che nessun partito – tranne qualche sparuta e inascoltata minoranza – voglia fare una tale riforma.