Il sistema previdenziale che è in vigore attualmente in Italia e chiamato “a ripartizione”. In pratica questo sistema prevede che i lavoratori che versano i contributi siano utilizzati per pagare gli assegni previdenziali di chi è già in pensione. Il sistema, istituito nel lontano 1945, per reggersi in equilibrio necessita che ci siano almeno 1,5 lavoratori attivi che versano contributi per ogni pensionato. Fino ad ora dal momento che i pensionati erano di numero inferiore e c’erano molti lavoratori il sistema è sempre stato in equilibrio. Nell’Italia del dopoguerra che cercava faticosamente di riemergere dopo il periodo bellico c’era un gran fermento e voglia di fare che poi avrebbe portato al boom economico che si è verificato negli anni 50/60. C’era molto ottimismo, una grande voglia di progresso e nascevano in quegli anni tutta una serie di fabbriche soprattutto metalmeccaniche che hanno determinato quel “boom economico” che hanno portato l’Italia alla fine degli anni Ottanta addirittura al quarto posto tra le potenze più industrializzate al mondo dopo Stati Uniti, Giappone e Germania. Il tutto aveva determinato anche molta fiducia nel futuro ed infatti, solo per fare un esempio, in Italia nascevano oltre un milione di bambini l’anno.
Il sistema previdenziale così alimentato era perfettamente in grado di gestirsi in maniera equilibrata e nonostante tutta una serie di regalie che ci furono i quel periodo come le baby pensioni (dipendenti pubbliche con figli che accedevano al pensionamento con solo 15 anni di contributi a 35 anni di età), pensioni calcolate sulla retribuzione dell’ultimo anno di stipendio, largo uso di benefici a varie categorie di lavoratori, il sistema, anche perché l’aspettativa di vita era molto più bassa ed il numero di pensionati nettamente inferiore ad ora, si è sempre mantenuto in equilibrio per quasi 80 anni.
Ora la situazione è completamente cambiata. Innanzitutto, il numero dei nuovi nati si è drasticamente ridotto a meno della metà rispetto agli agni anni 60. Per esempio, nel 2002 si è registrato il minore tasso di natalità addirittura dal 1861 ad oggi con appena 393.000 nuovi nati. La popolazione invecchia sempre di più e l’aspettativa di vita, se si esclude il periodo del COVID, è enormemente cresciuta rispetto a 50 anni fa. Inoltre, il sistema previdenziale per reggersi in equilibrio, secondo calcoli attuariali, prevede che la pensione non dovrebbe essere erogata per più di 20/25 anni. A causa dell’aspettativa di vita che aumenta e del grande numero di pensionati, si è pensato di aumentare con la Legge Fornero l’età del pensionamento fino a 67 anni. È del tutto evidente che, soprattutto per certe tipologie di lavori, è un’età esagerata che andrebbe leggermente ridotta. Dati dell’INPS, confermati da illustri esperti, evidenziano che il rapporto di 1,5 lavoratori per ogni pensionato considerato equo, a causa del lavoro frammentato dei giovani e delle donne, dell’aumento delle pensioni, e dell’aspettativa di vita che aumenta sempre di più (l’Italia è uno dei Pauese più vecchi del mondo) questo rapporto scenderà velocemente fino ad arrivare nel 2050 ad uno ad uno. Un lavoratore per ogni pensionato. A quel punto di sistema crollerà e lo Stato non sarà più in grado di pagare le pensioni.
Bisogna, dunque intervenire immediatamente e studiare un nuovo modo di previdenza in Italia. Una soluzione potrebbe essere quella di un sistema misto ripartizione/capitalizzazione. Una parte dell’assegno erogato tramite versamenti di lavoratori attivi e l’altra parte mediante versamenti effettuati dallo stesso lavoratore che vengono investiti, sotto il controllo dello Stato, aumentando il monte contributivo che permette una pensione dignitosa.
E’ chiaro che sarebbe un cambio epocale non facile da assimilare, ma con il consenso di tutte le forze politiche, i sindacati, gli esperti e le organizzazioni di categoria si può raggiungere un risultato soddisfacente per tutti per consentire che dopo una vita di lavoro si abbia una pensione in linea con quanto versato.