Autonomia differenziata e le dimissioni del Comitato

Autonomia differenziata: il Comitato era diventato in questi mesi il fiore all’occhiello del ministro Calderoli che, almeno in Parlamento, ama fare le cose in grande

StrettoWeb

L’avversione per l’Autonomia differenziata che per anni è apparsa nel nostro Paese e nello stesso Mezzogiorno come un rivolo insignificante è diventato ormai, con le dimissioni di Amato, Bassanini, Finocchiaro, Gallo, Paino, Scoca, Violante dal Clep, (il Comitato per i livelli essenziali delle prestazioni) una fiumana. Tale Comitato era diventato in questi mesi il fiore all’occhiello del ministro Calderoli che, almeno in Parlamento, ama fare le cose in grande. Ricordo ai lettori cosa fece con il Porcellum e la Devolution, salvo poi disconoscerli. Il Clep però (anche se, a prima vista, con tutto il rispetto per gli autorevoli componenti che ne fanno parte, sembrava celebrare un trionfo della vanità senile, che di tutte le vanità è quella più pericolosa) conferiva, attraverso l’immagine di quel drappello di uomini illustri, esibiti in bella mostra, un sigillo di legittimità culturale alla famosa Autonomia differenziata. Le dimissioni di questi giorni disfano un mosaico istituzionale perverso, tutto a svantaggio del Sud.

Adesso l’Italia tutta ha capito che il tentativo di Calderoli e di Zaia è semplicemente quello di rendere più forti i territori già forti a svantaggio di quelli più deboli. Scrivo, come i lettori sanno, da molti anni su questo tema e non voglio ripetermi. Intendo oggi avanzare alcune considerazioni politiche su questo nodo controverso, cominciando con una domanda. Ma questo provvedimento dell’Autonomia differenziata, dopo le prese di posizioni molto critiche di organi terzi, quali la Banca d’Italia, la Corte dei conti, l’Ufficio parlamentare di bilancio ed altri ancora, può non essere esaminato dal Parlamento? E ancora, conviene a Giorgia Meloni, nella doppia veste di presidente del Consiglio e di segretaria politica di Fratelli d’Italia accettare questa procedura istituzionalmente elusiva su di un tema diventato ormai rovente? Certo che no. Diventerebbe nel primo caso la prima presidente a decretare consapevolmente – carte alla mano – la cancellazione definitiva della parte più difficile del Paese.

Un’operazione non vantaggiosa dunque sul piano istituzionale, ma anche sul piano partitico. Vi si faccia caso. Meloni realisticamente può cullarsi sul consenso ricevuto, nelle scorse elezioni, nel Nord del Paese? Quelle condizioni sono in tutta evidenza irripetibili. Per quanto tutto il versante politico opposto possa apparire oggi in pessima salute, non raggiungerà mai i livelli di disastro raggiunti nelle elezioni dello scorso settembre. Il consenso tradizionale dei partiti di destra in Italia è prevalentemente radicato nel Sud del Paese. Il giorno in cui le vacche non saranno più, per la destra italiana, grasse, come in questa stagione, il consenso del Sud tornerà a diventare essenziale. L’estrema mutabilità degli umori del Paese non consente a nessuna forza politica sonni tranquilli. Alle scorse elezioni europee Salvini conquistò oltre il 34 per cento. Oggi i sondaggi lo danno sotto il dieci. Il capo della Lega in questi ultimi anni, dopo avere riversato su questo territorio una grande quantità di contumelie, ha avuto un’idea vincente. Ha eliminato dal proprio simbolo il riferimento al Nord e ha cominciato a offrire al Sud l’unica risorsa di cui dispone: le foto ricordo. In un territorio negli ultimi tempi letteralmente abbandonato dagli altri partiti, l’operazione ha avuto successo.

Conosco un poco il Mezzogiorno per potere affermare – e mi scuso per la presunzione – che una buona parte della classe dirigente meridionale di destra si è offerta al drago per disperazione ed anche per esigenze meramente tattiche. Avendo trovato le altre due postazioni dell’alleanza di centrodestra occupate, una parte del personale politico meridionale si è buttata nelle braccia dell’unico leader di partito che, quelle braccia, le tendeva. Questo però non postula acquiescenza assoluta alla volontà del capo del Nord. Nella seconda metà degli anni ’70 dalla nostra regione partirono per Roma con ogni mezzo circa 35 mila calabresi per protestare contro le politiche del governo Andreotti nei confronti di questa regione. Non solo i sindacati ma anche le figure politiche del Mezzogiorno, indipendentemente dall’appartenenza politica, da Mancini a Ferrara, all’epoca presidente della regione, si posero alla testa di quell’esercito. E’ vero che sono cambiati i tempi, e con questi le persone, ma è obbligatorio rilevare che alcune figure istituzionali dispongono di una forza di pressione imponente. Perché in politica l’unica cosa che non si può chiedere ad una figura istituzionale è quella di agire, non a favore, ma contro il proprio territorio che l’ha eletto.

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