Il fastidio di pensare – La tragedia di essere ricchi

Tutto un mondo giornalistico italiano (quello almeno che se lo può permettere) ha spernacchiato, e con piena ragione, uno scritto in cui Alain Elkann

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Per un paio di giorni tutto un mondo giornalistico italiano (quello almeno che se lo può permettere) ha spernacchiato, e con piena ragione, uno scritto in cui Alain Elkann, uno dei rappresentanti della moderna aristocrazia italiana, raccontava un suo viaggio dalla Capitale a Foggia e la sua sofferenza nell’averlo dovuto fare, lui di così alta levatura, circondato da persone “comuni”. Ovviamente queste cose s’è guardato bene dal dirle espressamente, ma traspaiono da ogni rigo di quello che vorrebbe essere solo un racconto. In quello scritto lui vorrebbe fare solo un ritratto (molto apologetico) di sé stesso, vistosi come un distinto signore, di elegante vestire e di profonde e raffinate letture di fronte a un mondo in rapida e inarrestabile decadenza. Ma quella che ne è venuta fuori è (e il vero dramma è che non se ne è reso neanche conto) una caricatura che sarebbe sembrata esagerata anche a Paolo Villaggio che nascondeva dietro iperboli sarcastiche e grottesche il vuoto di una classe sociale intenta soltanto a rimirarsi.

Noi abbiamo moltissimi dubbi sulla realtà della descrizione che l’illustre aristocratico fa di sé stesso. Non bastasse altro, come ha ben notato qualcuno, scambia il quarto volume (e non capitolo, come lui dice) della Recherche proustiana con il secondo, simbolo chiaro che ha le idee un po’ confuse sui libri con cui dice di avere familiarità, ma lo cita come simbolo di alta lettura, e persino in francese (potrebbe benissimo leggerlo, o fare finta di leggerlo, in italiano, di cui abbiamo ottime traduzioni, ma un ottimo snob deve distinguersi fino in fondo). E lo tira fuori tra giornali di due o tre lingue che deve ben mettere in mostra, tra penne costosissime e borse di cuoio.

Il problema di fondo, al di là del sarcasmo dei lettori, è molto più profondo: perché tutto questo? Perché una certa borghesia sente così tanto il bisogno di differenziarsi dall’uomo comune? Se sappiamo rispondere a questa domanda avremo risposto a uno dei profondi mali storici della società italiana.

Uno dei vecchi mali della società italiana è che mentre nei paesi dell’Europa protestante la borghesia che si formava spazzava via una vecchia aristocrazia decadente e portava nuovi valori, in Italia questa è stata sempre troppo debole, cosicché è stata sempre l’aristocrazia ad assorbire quella fragile e frantumata borghesia che si andava formando. Insomma, appena qualcuno riusciva a farsi in qualche maniera una posizione non creava anche un nuovo sistema di idee ma correva subito ad asservirsi al vecchio padrone per differenziarsi dal mondo da cui veniva e fare capire che lui era diverso. In Italia insomma la lotta della classe media era una lotta ipocrita di nuovi arrivati che non imponevano alla società il loro modo di essere ma correvano a imitare quello a cui volevano assomigliare. E il primo modo per farlo era comprarsi un titolo. Vorrebbero descriversi come delle figure dannunziane. Ma poi, appena la maschera fa trasparire qualcosa, compare tutta l’ipocrisia di un mondo non solo annoiato, ma che spesso soffoca questa noia con i peggiori vizi. Come esemplarmente descritto nel Gattopardo, il mondo altolocato italiano vive da sempre una doppia vita. Il Principe ride del vestito del nuovo sindaco, ma gli tende la mano: il blasone si sposa con i soldi. La sera va con le prostitute (o fa figli con le cameriere che poi riempiranno i brefotrofi), ma di giorno è sussiegoso solo con la moglie che non ha mai amato, l’unica che gli porti una dote di rispetto.

E adesso, quando si mostra davanti agli altri, ecco di nuovo la maschera: deve mostrare agli occhi di chi lo osserva autori di alto sentire (rigorosamente in lingua originale), riviste di cultura, giornali stranieri (un po’ come quelli che questi giornali li comprano solo per metterli sotto il braccio e poi vanno in giro stando bene attenti che la gente li guardi). Poi infine, questo mondo aristocratico si è mostrato aperto verso gli umili. Ma non alla Dostoevskij, condividendone il dramma per elevarcisi insieme. Il suo è piuttosto un atteggiamento di elemosina. Non perché gli interessi, ma perché è l’ultima strada imposta dai tempi. In realtà uno dei suoi vecchi mali è sempre stato il disprezzo di classe. Come aveva notato Gramsci, l’intellettuale italiano, già da Manzoni, ha un atteggiamento mentale costante nel tempo per cui andare incontro alla massa è visto come un dovere ma senza mai nascondere la precisa coscienza d’una differenza sociale. Ci si piega al popolo spinti da un imperativo etico di andare incontro agli umili ma senza mai riuscire a mascherare del tutto una sua precisa coscienza di superiorità di classe. È  la sua ultima maschera, il radical chic che ha imperniato da sempre una certa sinistra italiana, quella va alla riunioni di partito e posteggia fuori le Mercedes e le BMW. Come dire: compagni sì, ma fino a un certo punto, poi ognuno torna a dormire a casa sua, io sono pur sempre un uomo di alto sentire. E infatti non ci stupiamo che l’unico a difendere Elkann sia stato Sgarbi, che ne ha approfittato per un panegirico di sé stesso. Lui, naturalmente, non è che disprezzi la fica e il turpiloquio, anzi. Ma poi, appena si è trovato una telecamera addosso, ha cominciato a citare Ceronetti e Léautaud, non perché gliene fregasse molto ma perché era sicuro che almeno quelli i più non sapessero chi fossero. I re continuano a camminare nudi.

 

 

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