Il fastidio di pensare – Gli assegni della storia

Diversi secoli di filosofia politica occidentale avrebbero ascoltato sbalorditi

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E infine ci tocca assistere all’ultima sciocchezza europea con le scuse ufficiali e contrite del sovrano dei Paesi Bassi per la schiavitù a cui anche il proprio popolo ha messo mano (ma, naturalmente, da più parti già si annuncia che è troppo facile uscirne così e già si parla di risarcimento). Diversi secoli di filosofia politica occidentale avrebbero ascoltato sbalorditi: di solito le rese incondizionate si firmano alla fine di una sconfitta, e anche i risarcimenti li decidono i vincitori nei confronti dei vinti, ma qui abbiamo l’opposto: è il sovrano che motu proprio si umilia di fronte alla sua storia e chiede il prezzo del suo perdono. Parole che sarebbero incomprensibili se l’Occidente non fosse prigioniero di una delle sue ricorrenti crisi di coscienza che ogni tanto lo turbano e gli impediscono di vivere serenamente il proprio presente per dare vita a complessi di colpa per una cosa o l’altra della sua storia. Se già non fosse di per sé priva di senso questa idea di scusarsi per i fatti storici, in cui cioè viene trasposta e completamente decontestualizzata un’etica del tempo presente per avvenimenti svoltisi qualche secolo fa (una delle ultime imbecillità della cancel culture), ancor di più lo è per quanto riguarda la schiavitù, che noi di questo tempo consideriamo una pratica abominevole, ma che per millenni in tutte le società e civiltà umane è stata considerata del tutto ovvia e banale (e semmai furono proprio i persecutori europei i primi a porla in discussione, a vederla come un crimine e a discuterne l’abolizione). Lo era, del tutto ovvia, anche presso le società tribali africane, tanto che i mercanti settecenteschi portoghesi e olandesi non dovevano neanche spingersi fino all’interno del continente per procurarsi la “merce” da portare in America ma spesso erano gli stessi capitribù che gliela avevano già raccolta fino ai porti di imbarco. E si dice questo, beninteso, non per giustificare alcunché. Noi crediamo, con Croce, che le giustificazioni debbano restare fuori dalla Storia, ma questa serva solo per analizzare i fenomeni e cercare di comprenderli. Ma se poi ci si pone di fronte al passato in un atteggiamento di rifiuto con l’occhio dei giudici e un’etica sdegnosa non solo si rifiuta di capirlo ma si rifiuta di comprendere lo stesso presente.

Per fortuna, sia pure timidamente, c’è anche un certo Occidente che prima di essere travolto dai suoi fantasmi sta cominciando a dare timidi segni di risveglio. La Corte Suprema statunitense ha finalmente abolito quell’affirmative action che era uno dei parti della cultura kennedyana della nuova frontiera con cui si volevano pagare i debiti con la storia ma che non è stato altro che un cappio al collo della scuola americana ma che nessuno per sessant’anni aveva avuto il coraggio di toccare per non essere accusato (infausta parola) di razzismo. Cosicché per decenni college e università avevano dovuto ammettere, o aggirare la legge con metodi affannosi, studenti di più basso livello a discapito di altri solo per motivi etnici. In pratica, una sorta di razzismo al contrario, dove essere neri o indigeni comportava dei vantaggi (un po’ quanto sta succedendo in Italia con le quote rosa: non importa quanto vali, l’importante è che sei femmina). In una società che si propone di eliminare le discriminazioni di genere o di razza, poi con l’idea che alcune razze e alcuni generi sono svantaggiati si fanno delle leggi che discriminano gli altri, e nessuno osa protestare per non sembrare un oppressore di chi già se la passa male. Naturalmente nelle università il numero di bianchi e asiatici era sempre enormemente maggioritario, ma si faceva notare che per fare entrare quei neri alcuni che si erano rivelati ai test migliori di loro erano stati esclusi; un po’ come dire che, per esempio, in una finale di atletica non partecipa solo chi ha avuto i migliori tempi ma se ci sono troppi neri alcuni se ne devono andare per fare entrare qualche asiatico o bianco tanto per fare avere piena varietà razziale. Fino a che proprio un giudice nero ha avuto il coraggio di dire che se una società vuole andare avanti ogni individuo deve contare come individuo e non come membro di una razza. Non sappiamo quante avversità avrebbe trovato un discorso del genere in un’Europa malata di ideologia dove il concetto di inclusione è sempre da anteporre a quello di valore e in Italia dove la parola razza non si può nominare nemmeno per le sue lontane reminiscenze fasciste. Ma la società statunitense è terribilmente competitiva e dice che se vuoi giocare il posto te lo devi guadagnare. Non è molto facile. Ma il Dio calvinista non è un Dio buono. E purtroppo, temiamo, neanche la politica a lungo andare ha molta considerazione di chi si mette in ginocchio senza neanche avere davanti un avversario. A stare con il capo chino non si riesce mai ad avere una grande prospettiva della strada che si ha davanti.

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