Il fastidio di pensare – Ricordo di Agazio Trombetta, a restituire la memoria ad una città in disfacimento

Agazio Trombetta, ho avuto come l’impressione che si fosse spenta d’un tratto con lui una figura che raccoglieva in sé alcuni secoli di memoria cittadina

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In Africa, dove la cultura si trasmetteva quasi esclusivamente per via orale, si diceva che quando un griot muore era come se una intera biblioteca andasse in fumo. Mi è venuta in mente questa espressione quando ho appreso della morte del preside Trombetta: ho avuto come l’impressione che si fosse spenta d’un tratto con lui una figura che raccoglieva in sé alcuni secoli di memoria cittadina. Questa memoria, naturalmente, è immagazzinata anche in fogli che riempiono archivi e in decine di libri che impolveriscono gli scaffali delle biblioteche. Ma non è la stessa cosa. Platone, che non amava la scrittura che imprigiona la conoscenza che per lui può nascere solo dalla dialettica del dialogo, si riferiva a questo. Quando, nel corso delle mie ricerche avevo qualche dubbio o mi imbattevo in qualcosa di interessante che riguardasse la storia cittadina allora mi piaceva scambiare qualche parola con lui.

E lui mi riceveva con la sua affabilità da signore ottocentesco nella sua veranda che dominava il viale Boccioni e si iniziava a parlare di quella cosa ma poi il dialogo andava avanti, perché con il preside Trombetta, così come con le tutte persone di straordinaria cultura che ho avuto la fortuna di incontrare nella mia vita, ogni cosa ne portava fuori un’altra e poi un’altra ancora, e io lo ascoltavo affascinato, e mentre mi scorrevano davanti immagini di storia cittadina, tra aneddoti o anche semplici curiosità alla fine, sebbene ci sembrasse che non fossimo lì da più di qualche minuto infine ci rendevamo conto che ci era scorsa accanto un’intera mattinata. Ma per fortuna poi, appunto, a differenza dei griot e come invece Platone che aveva compreso il fascino della parola ma che non bisogna perdere ciò che s’è raccolto, il preside queste cose non se le è tenute dentro ma le ha sciorinate anche in bellissimi libri in cui ha restituito a una città a cui molti avevano fatto di tutto per togliergliela una grandissima parte della sua memoria storica. I suoi libri sul Lido Comunale, sui Caffè di Reggio, sul volto storico dei palazzi cittadini e tante altre ricostruzioni che è andato recuperando sono autentici capolavori.

Chi come me è nato negli anni bui di Reggio, dove per vent’anni giunte comunali di dubbia natura avevano ridotto il Cilea a un cinema per film di second’ordine, il Corso cittadino a una strada dove asfalti sopra asfalti ormai superavano il marciapiede e la via marina a una colata di cemento da cui fuoriuscivano ferri arrugginiti non può che essere grato a Agazio Trombetta che d’un tratto mostrò a tutti quello che questa città era stata e quello che sarebbe potuto tornare a diventare. Ci aveva detto: noi veniamo da un passato di alta levatura, non arrendiamoci a questo squallore che ci circonda, ma cerchiamo di adeguare i nostri sogni all’altezza di quello che siamo stati. Non che fossero mancati altri storici, appunto. Gli archivi abbondano di notizie e anche su Reggio sono stati scritti volumi anche interessanti, ma queste cose erano dette in pagine sbiadite, scritte nel solito linguaggio di tutti gli storici che hanno il difetto di parlare spesso solo tra di loro e mai all’uomo comune, con il linguaggio uggioso degli uomini di cultura italiani.

Nei libri di Trombetta invece, per la prima volta, il passato ti afferrava e tu lo vedevi a tutta pagina, e cominciava a spiegarti dove ti trovavi, quello che era successo, e le figure prendevano forma e ti dicevano cosa era avvenuto dove adesso c’era adesso solo sudiciume. E in quelle pagine che continuavi a sfogliare tutto aveva un’aria straordinariamente affascinante, così come quando ti mettevi ad ascoltarlo. Sembrava quasi di farti trascinare in quelle bellissime serate della vita movimentata del Lido, o nella vita bohémienne sui caffè del Corso, o in quelle serate dorate della Reggio bene (e certo tu poi sapevi anche che quello era solo un volto di Reggio, che non tutta era stata “bella e gentile”, ma per un attimo di immergevi in quel sogno liberty e volevi dimenticare lo squallore che avevi attorno). Io mi sedevo con in mano quei libri enormi e accattivanti e vedevo la città come era stata. E tutto riprendeva vita e cominciava a parlarmi attraverso quelle bellissime cartoline che lui aveva raccolto in una vita di attentissimo collezionista.

Naturalmente, certo, il preside Trombetta era anche uno storico attentissimo. Non c’era cosa degli ultimi secoli che non lo avesse affascinato e che non avesse meritato una sua ricerca approfondita e molto attenta. Ma questo è un discorso che lascerò agli storici di professione. Io credo che il principale merito del preside Trombetta sia stato questo: avere saputo parlare, lui coltissimo, all’uomo comune, e avere restituito alla città una memoria iconografica, accattivante e bellissima in un tempo di smarrimento. Se ne va con lui uno dei grandi intellettuali che ha saputo cercare la grandezza di Reggio anche in un momento in cui Reggio, chiudendo gli occhi alla ragione, si era fatta misera, e mentre fuori si parlava di abbattere la torre Nervi, o di vendere l’Albergo Miramare, o di nuovi progetti di violenza urbana, che ogni tanto ritornano. Perché qui sono sempre gli uomini di cultura a dovere raccogliere e rappezzare i danni e le miserie della politica. Perché in questa città la ragione, quando non dorme, sonnecchia.

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