Il coraggio di restare

Un inno al coraggio di tutti quegli "invisibili" che, ogni giorno, lottano per restare al Sud: abbiamo la "capatosta" e ne andiamo orgogliosi

StrettoWeb

Oggi vorrei spezzare una lancia in favore dei terroni. Sì, quei terroni di nome e di fatto che, dopo anni di sacrifici, hanno “acconsentito” di diventare cavie di un nuovo esperimento sociale, quello di realizzarsi nel 2023 nel fantomatico Sud, il paese dei balocchi d’estate, la balena che inghiotte Pinocchio d’inverno. Oggi mi gira così: io sono una di quelle terrone nata al Sud, che ha studiato al Sud e che lavora al Sud. Anche io, durante i miei vent’anni, avevo dei sogni: l’idea era quella di arrivare a svolgere un lavoro che mi permettesse di esprimermi scrivendo.

Per chi non mi conosce, sono una di quelle persone empatiche che, a voce, straparla ma quando scrive, si esprime per davvero. No, alla veneranda età di 32 anni non mi sento così ignorante da non saper articolare un concetto di persona ma la scrittura, da quando ho impugnato una penna, mi ha permesso di scavare a fondo dentro me stessa e dentro la realtà che mi circonda. E permettetemi, qui al Sud siamo in un mare di merda: anche io quindi, caduta nella fatiscente trappola di trovare “El Dorado”, ho vissuto un anno e mezzo a Milano. Per carità, nulla da dire: ma non era il mio posto.

Il mio luogo è la mia terra, è dove sono nata, cresciuta e dove continuo, tra alti e bassi, a realizzarmi e pensate un po’, lo faccio scrivendo. Ma io, nel mio mare pieno zeppo di cacca, ci sguazzo benissimo. E no, non sono masochista. Dentro a questo mare, anche se melmoso, vedo un fondale bellissimo, fatto di opportunità inespresse che non vedono l’ora di essere scovate. La famosa “fuga dei cervelli”, per me, resta inimmaginabile: ho sviluppato un attaccamento per questa terra, definita maledetta, perché voglio liberarla.

No, non sono neanche una santona, semplicemente sono una cittadina del Sud che ci crede e che ha trovato il coraggio, in mezzo a mille ostacoli, di restare. E nulla, e dico nulla, potrà togliermi questo pallino dalla testa: a tutti farebbe comodo avere un lavoro super mega galattico, in un palazzo super mega galattico, circondato dall’innovazione super mega galattica. Ma se io vado via, e con me tutti gli altri, chi ci penserà a questa terra?

I giornali esaltano le grandi menti illuminate che, non trovando qui la possibilità di fare carriera, hanno rivolto lo sguardo altrove. E, ovviamente, non li biasimo: i sogni hanno percorsi conflittuali e imprevedibili e ogni angolo del mondo, se ci si sente felici, può diventare casa. Ma perché nessuno inneggia a me, ai miei colleghi, ai tanti giovani e meno giovani che qui hanno cercato di costruire il loro pezzo di casa. Siamo fatti di ferro noi, e di resilienza: e questa, signori miei, è una dote che nessuno può toglierci.

E se io andassi via, se tutti coloro che sono in cerca del benessere andassero via, chi denuncerebbe i soprusi di questa parte d’Italia? Chi combatterebbe al nostro fianco? I problemi sono molteplici e sarebbe alquanto noioso elencarli tutti: ma qualcuno deve pur lottare per cambiare quel famoso sistema. Andando via, i problemi non spariscono ma sono solo più lontani. E io non posso neanche immaginare di aver potuto abbandonare il mio paese solo perché non c’è più l’ospedale, perché hanno chiuso le scuole o perché non vige la meritocrazia ma solo “il figlio di”.

Non posso voltare la faccia a una luogo che mi ha dato la vita e che ha tanto da mettere sul tavolo da poter sbaragliare un’inesistente concorrenza. Perché i primi concorrenti, da sconfiggere, siamo tutti noi. Noi che, per primi, abbiamo mollato la presa e abbiamo lasciato il nostro Sud in balìa degli eventi, spettatore di un futuro che diventa sempre più nero.

Per questo, e per tanto altro, non voglio recidere le radici che mi tengono attaccata al mio territorio. Io, così come i miei colleghi, quegli invisibili che si “accontentano” di stare qui perché, secondo gli altri, non riescono a lasciare mamma e papà o perché hanno paura. Purtroppo, alcuni di noi, i genitori non li hanno più o li hanno mezzi acciaccati. E questo dovrebbe incuterci timore perché non sappiamo in mano a quale medico affidarli.

Ma noi non molliamo, io e la redazione per cui lavoro, siamo qui e siamo la testimonianza che sì, per vivere al Sud ci vuole tanto coraggio.  Siamo noi, forse, quelli che più piangiamo perché ci sentiamo abbandonati, non perché abbiamo dovuto abbandonare le nostre città. Ma tiriamo su con il naso, asciughiamo le lacrime e ci rimettiamo, penna in mano, a scrivere della nostra realtà, dei soprusi, delle violenze, delle malefatte che ci toccano quotidianamente nella speranza di un riscatto. Evviva noi terroni allora, evviva noi che abbiamo il coraggio di restare.

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