Il marchese del grillo s’è svejatooo!

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Loro hanno la maggioranza in Parlamento ma non hanno la maggioranza nel Paese, perché i numeri parlano chiaro: 12,5 milioni di persone hanno votato questo Governo, ma ce ne sono 18 milioni che a votare non sono andate e altre 15 milioni che hanno votato altre forze politiche. Noi abbiamo bisogno di rappresentarli e di batterci perché questo cambiamento ci sia”. Parole sante, dette da Landini.

La CGIL fa le veci del Parlamento, anzi fa le veci del popolo stesso: non si capisce però perché questo nobile impulso non lo abbia sentito quando al governo vi erano altre minoranze (leggi il PD): forse perché queste avevano ricevuto l’investitura dall’alto di un colle romano dove dicono risieda la ‘saggezza’? Landini ‘s’è desto’ e, non s’è trovato da solo; a tirare le tende e ad aprire i balconi c’erano gli operosi zappatori del ‘campo largo’, sia pure ancora da ‘catastare’: pare infatti che le ammucchiate predilette dalla Schlein funzionino assai poco come dimostra l’aperitivo ‘sprecato’ nel bar di Campobasso.

Da questo punto di vista, possiamo dire che la collezione di harakiri della sinistra sia cominciata già fin dalle primissime settimane di vita del governo Meloni. Dopo il giuramento, il Consiglio dei ministri ha pochissimi giorni per approvare una manovra economica – già definita nelle linee generali dal governo Draghi – che consenta di far pesare di meno sui cittadini il rincaro delle bollette energetiche e comunque di mantenere i conti dello Stato in ordine senza cadere nel pericolosissimo esercizio provvisorio: risultati tutti raggiunti dall’esecutivo. L’opposizione avrebbe avuto modo di portare in Parlamento alcune proposte per stimolare il governo e migliorare ulteriormente la legge di bilancio: invece il centrosinistra si è unito all’iniziativa della Cgil di scendere in piazza contro la finanziaria il 17 dicembre 2022: “Sciopero generale!“. Il governo Meloni s’era appena insediato e già il 13 novembre dell’anno scorso, il sindacato landiniano lo aveva accolto con questo grido di guerra che è stato ripetuto qualche mese fa ancora più forte e chiaro con minaccia di ‘autunno caldissimo’; davanti alla telecamera dell’Annunziata martire, la sua amica scodinzolante nel suo ultimo sussulto televisivo, il segretario cgiellino ha spiegato che “uno sciopero generale non risolve tutti i problemi … Occorre ricominciare a fare leggi che mettono vincoli sociali al mercato … Il mio compito non è quello di unire la sinistra“. No. Questo non ce lo doveva dire, non ci doveva deludere: a che serve la CGIL se non è una ‘cinghia di trasmissione’? Quali sono le roccaforti di questa minaccia che promette una resistenza senza tregua?

L’introduzione del salario minimo potrebbe favorire una fuoriuscita dall’applicazione dei contratti collettivi nazionali del lavoro rivelandosi così uno strumento per abbassare salari e tutele delle lavoratrici e dei lavoratori“. Lo ha detto Giorgia Meloni in persona, che più volte nelle ultime settimane ha messo in guardia da questo rischio concreto? Ma no. A dirlo era stato Maurizio Landini, già ‘segretario’ tutto d’un pezzo del sindacato quando la CGIL, il 12 marzo 2019, s’affrettò a depositare in commissione Lavoro al Senato – dove si discuteva, appunto, dell’ipotesi di una legge sul salario minimo – una memoria per sottolineare i “pericoli” intrinseci in una paga minima oraria fissata per legge. E ancora, in quel documento si può leggere, con profitto se non con diletto, che “il rischio di abbassare i salari diviene maggiormente concreto stante la diffusa struttura di piccole e micro imprese presenti nel tessuto economico italiano e la natura della validità della contrattazione collettiva nel nostro Paese … Con l’introduzione del salario minimo legale rischiamo che un numero non marginale di aziende possano, appunto, disapplicare il Ccnl di riferimento (semplicemente non aderendo a nessuna associazione di categoria), per adottare il solo salario minimo e mantenere “ad personam”, o contrattazione individuale, i differenziali a livello retributivo, senza dover erogare né il salario accessorio né rispettare le tutele normative che il Ccnl garantisce. La struttura dell’economia italiana e le caratteristiche di molte piccole e micro imprese rischiano di favori re in misura esponenziale una vera e propria diaspora dalla contrattazione nazionale“.

Qui ci sarebbe da pensare – ma non lo facciamo per non apparire maligni – che la prima preoccupazione del sindacato non sia il salario dei lavoratori quanto, piuttosto, il modo in cui questo viene fissato; forse il sindacato teme che, fissandolo per legge, il suo potere ne soffra e, quindi, agita ora questa bandierina per puri scopi politici senza credere che sia la ricetta giusta per risolvere il problema dei bassi salari. Ma, a parte questa nota di colore, ora Landini, accodandosi a Schlein e a Conte, soffia sul salario minimo nella speranza di fare scoppiare la bolla e mettere in imbarazzo la ‘destra sociale’ che, invece, pare abbia una ricetta diversa e di sistema: la crescita economica. A far cambiare idea alla CGIL di Landini, sul salario minimo o sul sistema sanitario in Italia, non è stata l’alta strategia politica e sensibilità sociale di Schlein; è bastato l’insediamento del governo Meloni. A quel punto, l’anno scorso di questi tempi, gli oppositori dovettero pensare a una strategia nuova che incorporasse la lotta antifascista nella lotta per la difesa della sanità pubblica e per il salario minimo. A tutti i costi, con qualsiasi argomento bisognava arrotare le armi per resistere, resistere, resistere nel tentativo di rianimazione politica della ‘sinistra’ languente.
Passando al tema della sanità, del SSN, quando Landini s’è destato, a tirare le tende c’era sempre la Schlein, nello stesso giorno miracolosamente ed equamente ubiqua, a Roma per la difesa della sanità pubblica e a Milano per l’orgoglio gay.

Elly è andata giù dura: “Oggi abbiamo letto le preoccupazioni che emergono da un rapporto della Corte dei Conti sulla situazione della sanità pubblica in 14 regioni. Il Pd sin dalla prima manovra denuncia che questo governo non mettendo i fondi alle regioni, soprattutto per i costi affrontati per il Covid ma anche per i rincari dovuti all’inflazione, sta già tagliando la sanità pubblica e quindi avvantaggiando quella privata. È una scelta di campo perché quando non metti le risorse per accorciare le liste d’attesa e per non far mancare il personale negli ospedali e nei Pronto soccorso, sta scegliendo di tagliare i servizi a cittadine e cittadini. Noi ci batteremo con forza per dire che la sanità pubblica deve essere finanziata maggiormente: bisogna progettare la sanità del futuro e il Pd continuerà a battersi in questa direzione“; e Conte, ancora assonnato dopo gli anni di letargo trascorsi a presiedere l’alto Consiglio, non è stato da meno: “Non accetteremo che la sanità continui a fare la Cenerentola. Stiamo tornando ai momenti peggiori del passato. Sembra che questo governo non abbia tratto nessuna lezione dalla pandemia. Lo stiamo vedendo anche con i fondi Pnrr che rischiano di non poter essere spesi. Siamo qui per ribadire la centralità del ssn e per dire che non accetteremo altri tagli“.

Conte non ha chiarito se si tratti di ‘altri tagli’ oltre quelli fatti dal suo governo (ben 2 miliardi + 1), da lui tagliati e giocati su tutte le ruote al banco lotto del Quirinale: come ha documentato la Fondazione GIMBE, dal governo Monti (2011) in poi il finanziamento annuo del SSN è diminuito in media di 0,6 punti sul PIL vale a dire di circa 40 miliardi in 10 anni. A fare i conti c’era pure ‘La Repubblica’ che, forte delle sue indiscusse capacità di analisi dei fatti economici e finanziari, ha addebitato, correttamente come al solito, tutto al governo Meloni partendo dalle misere ‘briciole’ (solo 2 miliardi) aggiunte ai 126 miliardi per il Sistema sanitario nazionale in bilancio per il corrente anno.
Finalmente è stato trovato il colpevole, o meglio il ‘capro’, e l’atto d’accusa è stato formulato inappellabilmente contro il governo di Giorgia Meloni: “Lunghissime liste di attesa, Pronto Soccorso allo stremo, medici di medicina generale assenti in molte aree del paese, massiccio ricorso alle cure del privato (con relativo esborso dalle tasche dei cittadini) per far fronte al deserto sanitario del pubblico, generale sotto-finanziamento del Servizio Sanitario Nazionale, interi settori – dalla Salute Mentale all’assistenza agli anziani – abbandonati a se stessi“.

In sostanza l’accusa mossa al governo Meloni non è di aver tagliato fondi al SSN, come è accaduto in passato, ma di non aver destinato risorse sufficienti per l’adeguamento del SSN alle necessità attuali.
Per essere più preciso e incisivo, Landini nel suo atto d’accusa sciorina una grande cultura scomodando pure Darwin: “Il governo Meloni definanzia la sanità pubblica e usa la sanità privata per dare e togliere cioè per praticare darwinianamente una precisa distribuzione del reddito all’insegna dell’iniquità. La misura relativa al cuneo fiscale quantificata in 3 mld, conferma l’idea di affidare al reddito la funzione di selezionare darwinianamente i bisogni di salute della nostra popolazione; è palesemente la foglia di fico per nascondere l’indecenza di politiche apertamente contro i diritti e apertamente a favore dei più forti, non dei più deboli“. Poi Landini ha aggiunto i suoi rimedi programmatici: “Abbiamo bisogno di investire e di non perdere neanche un euro del PNRR, di fare assunzioni e di garantire i servizi sul territorio“.

Sono tutti dati e problemi reali e preoccupanti: secondo Landini, la progressiva riduzione del numero di medici e infermieri, essendo in corso da almeno venti anni, va tutta addebitata all’attuale governo. In effetti quello del personale è il primo problema da risolvere: l’Agenas, l’agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali, avverte che oggi sono in servizio 103mila medici e 264mila infermieri, ma entro il 2027 andranno in pensione 41mila medici e 21mila infermieri. Oggi, secondo la stima la Federazione Nazionale Ordine dei Medici, mancano all’appello 20mila medici – di cui 4.500 nei pronto soccorso, 10 mila nei reparti ospedalieri, sei mila medici di base – mentre il settore infermieristico preoccupa maggiormente sia per qualità che per numero, un deficit difficile da colmare e che si sta traducendo in due fatti negativi: aumento della spesa ospedaliera con l’assunzione di medici a contratto e abbassamento della capacità di selezione del personale spesso con contratti al buio, mediati da cooperative che forniscono personale non qualificato. Pe non parlare della violazione del principio costituzionale dell’assunzione per concorso. Una delle cause di questa scarsità di medici e infermieri è stata l’introduzione del numero chiuso nelle Università (L. 264/1999). Bisogna però che qualcuno ricordi a Landini e Schlein che questa scelta fu fatta all’epoca dei gloriosi governi olivicoli del centrosinistra e fu giustificata dalla necessità (reale ed emergenziale) di proporzionare la formazione di medici e infermieri alla capacità delle nostre strutture di istruzione superiore, a quel tempo del tutto insufficienti; ma, da allora, se non fosse stato per la nascita di strutture universitarie private, poco o nulla è stato fatto per incrementare l’offerta formativa. Oggi le Università formano medici di base, specialisti e infermieri ancora in numero insufficiente ma, per rimediare al fabbisogno anche finanziario, occorre tutto il tempo necessario per rafforzare le strutture formative e per realizzare i finanziamenti dal PNRR che, certo, non vanno sprecati né tantomeno rifiutati ma solo bene allocati e non sappiamo fino a che punto lo siano stati. Speriamo che la revisione che il governo sta facendo del PNRR approvato dai governi precedenti ci dia l’informazione fino ad ora mancante e, soprattutto, ci rassicuri sulla bontà degl’investimenti.

Naturalmente, uno dei cavalli di battaglia dell’armata Landini – favorevole al centralismo democratico’ di sovietica memoria – è l’opposizione all’autonomia differenziata in quanto mezzo per ‘spaccare l’Italia e per introdurre nuove diseguaglianze’: anche in questo caso dobbiamo ricordare a Schlein e Landini che, a inventare l’autonomia differenziata è stato il loro PD. Ma forse la storia può aiutarci a capire meglio la situazione: Il SSN è articolato su base regionale ma il finanziamento è statale e sono almeno 20 anni che, per effetto della cura dimagrante del dr. Monti, nulla è stato più fatto in termini di riequilibrio territoriale delle strutture pubbliche della sanità: i posti letto sono diminuiti di parecchie migliaia e la modernizzazione stenta ad arrivare oltre Eboli. Gli effetti di tutto ciò, a cominciare dall’allungamento delle liste d’attesa, sono sotto gli occhi di tutti ed essi sono ancora più macroscopici quanto meno autonome sono le regioni: la Calabria, con la sanità commissariata dallo Stato già da più di dieci anni, ha visto i suoi problemi aggravati anziché risolti.
Parlando del dissesto sanitario dobbiamo pertanto partire dai punti di partenza delle varie regioni. Per esempio, in epoca di centralismo statale, in Calabria non vi erano, fino a qualche decennio fa, le strutture formative necessarie e, di conseguenza, non vi erano gli ospedali altamente specializzati che ne sono lo strumento. «È il momento di dire la verità», dice Mario Del Vecchio, professore di Economia all’Università Bocconi di Milano, «Con le scarse risorse a disposizione, il SSN non può offrire un servizio universale. Serve un ridimensionamento delle aspettative e la politica deve ammettere la necessità di un sistema ibrido, pubblico e privato, cercando di governarlo, con un’attenzione esplicita alle iniquità». Il che non significa che non si possa, anzi non si debba, regolare tutto il sistema pubblico-privato in modo da rendere economicamente e funzionalmente concorrenziali i due sistemi: lo stato deve finanziare e rafforzare il sistema regionale con l’istituzione capillare di poliambulatori e di strutture di primo soccorso, di diagnostica e assistenza domiciliare (anche con la telemedicina) e di prevenzione in tutto il territorio; ma non può promuovere – come vorrebbero Schlein e Landini – una crociata contro la sanità privata che, spesso, si è rivelata decisiva in molti settori e regioni per colmare le lacune della sanità pubblica, spesso superburocratizzata, supercostosa e inefficiente.

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