È morto Matteo Messina Denaro, (non) abbia pace l’anima sua

Il tumore al colon al quarto stadio ha ucciso Matteo Messina Denaro: a nulla sono valsi mesi di chemioterapia e cure

StrettoWeb

‎Matteo Messina Denaro, il boss di Cosa nostra che per trent’anni è stato un fantasma, è morto. Alla fine, il tumore al colon giunto ormai al quarto stadio lo ha ucciso. Ha scelto di non subire accanimento terapeutico. Ha scelto. Lui. Con Messina Denaro muoiono le sue nefandezze, i suoi crimini, le morti innocenti di cui si è macchiato le mani e la coscienza, come il piccolo Giuseppe di Matteo, per ricordarne uno tra tutti. Gente che non ha scelto. Non ha potuto scegliere.

Ciò che resta, dopo la morte del boss di Cosa nostra, è il senso di ingiustizia, di impotenza. Non ha pagato, mai, per i suoi crimini. Ha vissuto tutta la sua vita come chiunque altro, anzi meglio di molti altri. E dunque quello che state per leggere non è un coccodrillo. Non è il ricordo della vita di una persona defunta. E’ il curriculum di un criminale della cui morte, lo si sappia, piangeranno solo i criminali come lui e i loro compari.

Prima o poi lo prenderemo“. Lo hanno ripetuto per tre decenni ministri dell’Interno, forze dell’ordine, magistrati. Ci sono voluti trent’anni prima di quel 16 gennaio 2023 che resterà impresso nelle menti di molti. Il boss si era reso irreperibile subito dopo la cattura di Totò Riina. La polizia scientifica ha aggiornato, invecchiandola, l’immagine di Messina Denaro da giovane per tre decenni. E intanto il suo impero miliardario veniva smontato pezzo per pezzo e sequestrato. O almeno parte di esso. Già, perché c’è tutta una parte del suo patrimonio che non potrà probabilmente mai essere sequestrata. Perché i prestanome non si conoscono. E ora che la figlia del boss, Lorenza Alagna, ha preso il cognome del padre, verosimilmente quel patrimonio ha già un destino scritto. Da Messina Denaro, ovviamente.

Ci sono voluti dunque tre decenni anche per smantellare la sua catena di protezione e di finanziamento. Si è cercato, a fatica, di demolire il mito di un padrino che gestiva un potere infinito. Si è saputo che, in questi trent’anni ha avuto due figli: Lorenza Alagna, da poco Lorenza Messina Denaro, e Francesco. Intorno a questo ultimo aleggia un alone di mistero. E’ nato tra il 2004 e il 2005 fra Castelvetrano e Partanna, dove Matteo Messina Denaro ha costruito il suo potere economico e criminale.

Attento a gestire la sua latitanza, e a proteggerla con una schiera di fiancheggiatori, uno dei boss più ricercati del mondo ha lasciato di sè solo l’immagine del playboy con i Ray Ban e gli abiti firmati abbinati ai Rolex d’oro. Era fissato coi videogiochi, il boss di mafia, e appassionato consumatore di fumetti. Diabolik era il suo preferito e proprio da questo ha preso uno dei suoi soprannomi. Un altro glielo hanno affibbiato i suoi biografi U siccu, ovvero testa dell’acqua, cioè fonte inesauribile di un fiume sotterraneo.

Anche nei soprannomi per Matteo Messina Denaro emergeva il doppio volto di un capo capace di coniugare la tradizione della mafia, con la modernità. Il padrino di Castelvetrano si è sempre mosso tra ferocia criminale e pragmatismo politico. Per questo è stato considerato l’erede di Bernardo Provenzano ma soprattutto del padre, don Ciccio, morto da latitante nel 1998.

Nei più gravi fatti criminali degli ultimi trent’anni, a cominciare dalle stragi del ’92 in cui furono uccisi Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, è stata riconosciuta anche la sua responsabilità. Lui stesso si vantava di avere “ucciso tante persone da riempire un cimitero“. Ciò che è certo e che Messina Denaro ha traghettato Cosa Nostra nel terzo millennio.

Per molti, oggi, ha fatto la stessa fine dei vecchi padrini, data la cattura. Ma la verità è diversa. E’ stato ucciso da un tumore, come tanti altri. Ha sofferto, come tanti altri. E’ morto circondato dall’affetto dei suoi cari, figliol prodiga e sorella in primis. Ma non ha pagato e non pagherà mai per i suoi crimini. Alle udienze svoltesi fino ad ora non si è mai presentato. E mai lo farà. Non siamo ipocriti, dunque. E’ morto, ma augurargli la pace dell’anima o crucciarci per il sofferenze che ha passato negli ultimi giorni sarebbe troppo. Lo dobbiamo al piccolo Giuseppe, ma anche a Giovanni, Francesca, Paolo, Vito, Rocco, Antonio, Agostino, Emanuela, Vincenzo, Walter, Clausio e chissà quanti ancora.

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