Il fastidio di pensare – L’uomo dietro il nome

Qui a Reggio si accentua un vecchio vizio della cultura meridionale di ridurre tutto a rapporti personali

StrettoWeb

Alcune persone hanno inteso la mia critica alla commissione toponomastica di dedicare una villetta cittadina (tra l’altro in stato di vergognoso abbandono, e non è la sola) a Francesco Chirico come una forma di astio personale nei confronti del personaggio. Come al solito qui a Reggio si accentua un vecchio vizio della cultura meridionale di ridurre tutto a rapporti personali. Se sei amico di una persona, allora quella deve essere anche un ottimo poeta, artista e, a seconda del mestiere che fa, dico a caso, un eccezionale meccanico, idraulico, muratore o quant’altro. Se invece hai qualche risentimento personale, ecco che diventa un poeta da quattro soldi e ogni cosa che fa non vale più nulla. Ecco perché qui, tra l’altro, non esistono critici seri ma solo amici e nemici incapaci di distinguere le due dimensioni e quando qualcuno fa stampare un libro lo si vede arricchito di note di merito scritte senza che neanche ci si disturbi di vedere cosa c’è scritto dentro. Ma la realtà, ovviamente, nel distribuire  i talenti segue altri canali e poco si cura dei rapporti personali. E se ne infischia finanche di quella concezione di origine religiosa secondo cui non si può separare il lato etico di un uomo da quello artistico. Come ho scritto, Francesco Chirico che ho avuto il piacere di conoscere, fu un’ottima persona, colto e piacevolissimo conversatore, ma contesto proprio i titoli che gli vengono riconosciuti quanto all’altezza poetica e letteraria che ritengo molto modesta.

Le Muse, si sa, sono capricciose, e distribuiscono con bizzarria i loro favori. Cosicché si può essere dei delinquenti, o dei veri e propri pluriomicidi ma al contempo dei grandissimi artisti come Caravaggio o Benvenuto Cellini. E magari assommare su di sé i peggiori difetti che potremmo trovare in uomini come Céline o Carl Schmitt, e nel contempo dei geni letterari e filosofici. E poi, dall’altro lato, degli autentici signori di altissima levatura morale e non riuscire a mettere insieme due versi o andare oltre uno scarabocchio. E allora chi preferire? Diciamo che, se dovessi trascorrere un pomeriggio, gradirei certamente la piacevole conversazione di Ciccio Chirico e la sua splendida amicizia, ma se avessi l’onere di scegliere qualcosa di importante da trasmettere alle prossime generazioni allora, sia pure riconoscendo la paradossalità della cosa, andrei a prenderla tra i testi di Céline e di Schmitt.

E quindi, obietterebbero alcuni, per meritare di essere ricordati bisogna raggiungere vette leopardiane o comparire su giornali di alto spessore? Non ho mai detto questo. Ho apprezzato, per esempio, che si ricordasse Ciccio Errigo, che fu un poeta di alta levatura anche se la sua fama difficilmente supererà i confini cittadini e il cui nome difficilmente comparirà in qualche antologia scolastica. Ma che fu certamente una figura di primo piano della stagione letteraria del Novecento cittadino. E la stessa cosa si può dire (e lo riconosco da antimarxista convinto) di Enzo Misefari, di cui ho sempre apprezzato l’altezza morale e culturale, o di Pasquale De Filippo, giornalista di eccellente fattura. Insomma, una stagione culturale a Reggio c’è stata e anche interessante. E anche se non tutti sono arrivati a scrivere (dico per esempio) per la Mondadori o sul Corriere della Sera, c’è stato comunque un insieme di figure che ha dato vita a una attività intellettuale di un certo spessore. Basta studiare con attenzione la storia per conoscerli. Altro invece è perdersi in quel ciarpame che Umberto Eco ha descritto in quel suo saggio intitolato L’industria del genio italico in cui appunto nota come ognuno in questo paese si sente poeta o scrittore o quant’altro e trova sempre qualche altro disposto a dargli retta.

Altro ancora è poi, invece, volere elevare alla memoria figure che sono state solo brave persone o buoni esponenti di circoli politici e frequentatori di buoni salotti. Mi soffermo solo riflettendo sull’idea di volere dedicare una strada al poeta Balia. Premetto che ho amato moltissimo quella persona a cui devo molto per una intera stagione della mia vita, come credo tantissimi altri. E non vorrei qui ricevere gli strali di chi mi accusasse di difendere una visione di casta della cultura, visione che combatto da sempre e della cui vuotezza stiamo pagando fin troppo i risultati, ma credo che ogni cosa vada inquadrata nella sua dimensione. Che è qui quella di un “personaggio”, che meriterà certamente un capitolo quando una storia della Reggio novecentesca sarà scritta per raccontarla alla gente al di fuori da quei tecnicismi che rendono terribilmente noiosi i libri di storia dei professionisti. Altrimenti si dedichino strade anche a tutti gli altri personaggi che Reggio come, beninteso, ogni città e paese possiede, da Caramella a Maria “a Ciaciola” e quant’altro.

La cultura, per l’appunto, è altro. Ma in questo, bisogna saperlo riconoscere, un certo mondo intellettuale qualche colpa ce l’ha, se ancora viene visto così lontano da quella gente a cui da sempre dice di volere andare incontro e se ancora siamo affogati in questa mentalità per cui, quando si obietta qualcosa, la prima cosa che viene da pensare è: “quello deve avercela con lui”.

 

Condividi