Giornata Mondiale della Salute Mentale: sono pazza e me ne vanto!

Nella Giornata Mondiale della Salute Mentale non vi riporterò le solite menate scientifiche ma l'esperienza di chi ci è passato per davvero: questa è la mia storia

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“Ma sei pazzo?”. Tutti, almeno una volta nella vita, abbiamo utilizzato questa frase in un momento di rabbia per sminuire la persona con la quale si sta discutendo. Una frase detta così, senza pensarci: tre corte parole che sembrano non contare nulla e invece contano, eccome se lo fanno. Anche a me è capitato, durante un diverbio o quando ero in disaccordo con una persona, di utilizzarla: ho smesso di farlo alla fine del 2021 quando la pazza sono diventata io. Sì, avete letto bene: sono pazza e me ne vanto. E soprattutto, ho inteso il vero significato che si cela dietro questo termine ormai comune nel nostro vocabolario.

Ho capito di essere pazza, come vi dicevo, a dicembre del 2021: una situazione lavorativa e personale mi hanno portato alla pazzia, ma non come quella che si intende nell’immaginario comune. Non mi hanno legata con la camicia di forza, fatto l’elettroshock o cominciato a scuotermi come una tarantola. La mia pazzia si è sviluppata per gradi senza che me ne accorgessi: ricordo ancora una mia ex collega, nel mio vecchio ufficio, che mi ha massaggiato le spalle e ha esclamato: “mamma mia Carla, come sei tesa!“.

Normale direte voi, soprattutto se il lavoro prevede ore e ore davanti al computer con una postura scorretta. Ma non era solo quello: la sera, quando tornavo a casa, piangevo. Seduta vicino alla porta, nell’attesa di qualcuno che non voleva arrivare, piangevo e mi sentivo vuota. Un vuoto che non equivale a tristezza ma assomiglia alla paura. La paura di non farcela, di vedere infranta ogni aspettativa, di affrontare un’esistenza massacrante fingendo un sorriso sulle labbra. La paura del Covid, che non mi permetteva di tornare al mio paese, la paura di non riuscire a trovare una dimensione in cui stessi bene: non stavo bene a casa dei miei, non stavo bene a casa mia, non stavo bene in ufficio e non stavo bene con gli amici.

La mia tensione sulle spalle si è fatta sempre più pesante come il mio cuore: dalle spalle, poi è passata alla schiena fino a sfociare in un dolore acuto mai provato prima. Ho avuto paura di morire. Le gambe tremavano, la gola si era chiusa, non ho chiuso occhio per tutta la notte pensando che il mio destino fosse segnato per sempre: avevo una malattia incurabile ed ero lì, pronta a schiattare da sola come un cane.

Sono tornata a casa dai miei, ho preso dei banali antidolorifici e i dolori sono passati. Ma è subentrata poi la voglia di rinchiudermi. Ho cominciato a lavorare da remoto, ma tutto diventava pesante: alzarmi dal letto era faticoso, dormivo tantissimo (mai fatto in 30 anni di vita, pure da piccola mia madre si lamentava che non chiudessi occhio), non volevo mangiare (e quando mai, io che sono di buona forchetta) e non volevo neanche lavarmi.

L’unico mio “svago”, se così possiamo definirlo, era uscire alle sei del pomeriggio, il pigiama sotto il giubbotto a gennaio, e passeggiare per il lungomare del mio paese. Da sola, con la testa che mi diceva che ero una fallita e che avevo una malattia incurabile. I battiti ogni tanto acceleravano, ma il dolore peggiore era quello della mandibola stretta: digrignavo così forte i denti tanto da procurarmi un continuo mal di testa. E i capelli: mi nascondevo in stanza e, esasperata, me li strappavo.

Poi, un giorno, la salvezza: mia madre, stanca di vedermi in quelle condizioni e non sapendo come altro rassicurarmi dopo mille visite mediche dove mi aspettavo che mi diagnosticassero un male fisico che non avevo, ha chiamato il dottore di famiglia, sant’uomo! Mi ha fatto una visita approfondita, poi ci siamo seduti e mi ha chiesto come trascorrevo le mie giornate. Non potrò mai dimenticare le sue parole dopo quella sorta di colloquio: “Carlè (lui così mi chiama), io ti posso pure dare qualcosa ma tu sei giovane: questo è l’inizio della depressione”. Una diagnosi sconvolgente per i miei, ma non per me: finalmente avevo una risposta. Ero pazza sì, ma perché ero in crisi depressiva.

Sono stata molto razionale nel mio percorso di salute mentale; ho accettato (e voluto) incontrare una psicoterapeuta che, seduta dopo seduta, mi ha fatto capire il problema e, insieme, siamo arrivate al nocciolo della questione: la mia crisi depressiva era generata dall’ansia. Ma non quell’ansietta buona, dove te la fai sotto prima di un esame o un colloquio, ma un’ansia patologica che non ti fa apprezzare più nulla: diventi catastrofista (ecco il perché della paura della malattia incurabile), rimugini sulle situazioni e vedi solo il lato negativo (le mie continue lacrime) e i muscoli diventano tesi, come i miei pensieri che non ne volevano sapere di sbrogliarsi.

Non mi vergogno della mia diagnosi, non mi vergogno di dire che vado tuttora in terapia, non mi vergogno di dire che ho assunto farmaci che mi hanno aiutato a migliorare la mia malattia mentale: perché è questo di cui si parla, di una patologia vera e propria. Avere una malattia mentale, come dice la psicoterapeuta, non significa essere schizofrenici, ma ci sono diversi gradini come in una piramide: tutte le malattie mentali però, possono essere invalidanti. Ma il risvolto positivo è un altro: se ne può uscire. Io ne sono uscita e lavoro su me stessa ogni giorno. Grazie alla psicoterapia, sono riuscita ad affrontare situazioni ben più difficili dello stress a lavoro, ad esempio il tumore di una persona cara.

Oggi quindi, nella Giornata Mondiale della Salute Mentale, voglio spezzare questi inutili tabù che ancora persistono e che mettono in cattiva luce le persone che hanno un problema di questo tipo: il malessere fisico è pari al malessere della mente e dell’anima difatti, vanno a braccetto. Una mente forte, che sta bene e che riesce a navigare nel mare della vita, potrà essere invincibile ma solo se può sottoporsi alle cure senza sentirsi il dito puntato contro, senza provare imbarazzo, senza essere definiti pazzi.

E anche se lo siamo, va bene così: preferisco essere pazza e farmi curare, piuttosto che ricadere nel buco nero del mio male interiore. Per favore, non dimenticate l’esistenza di queste malattie invisibili (che poi tanto invisibili non sono), non le sottovalutate e, soprattutto, se avete bisogno, rivolgetevi a qualcuno. So che è difficile, ma se io ce l’ho fatta ce la possono fare tutti. L’ansia c’è ancora eh, ma ora almeno siamo diventate amiche e andiamo d’accordo.

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