Non deve meravigliare se due giorni fa Gianni Letta, un uomo che ha sempre fatto della misura il suo stigma, abbia assunto, su questa riforma costituzionale disegnata dal centrodestra, una posizione di avversione platealmente corrucciata per i danni che potrebbe procurare al nostro sistema istituzionale. Un testo criticato da quasi tutti i costituzionalisti e da organi terzi dello Stato. Sembra persino inutile ricordare, tanto è stato ripetuto nelle ultime settimane, che questa forma di premierato prospettata da Giorgia Meloni, non esiste in nessun paese del mondo. Lo Stato d’Israele, dopo averla adottata, si è affrettata dopo poco tempo a ripudiarla. Nessuna obiezione quindi se la destra arrivata al potere intenda correggere la forma di governo o apportare altre modifiche alla Carta. Se nel corso dei decenni l’Italia ha assistito al nascere e al morire di alcune Bicamerali istituite, appunto, per cambiare la Costituzione, ci sarà pure un motivo. Quello che immagino debba aver fatto venire l’orticaria a Gianni Letta sono probabilmente alcuni elementi contraddittori della riforma. Il primo. Il premierato, che ha un suo predefinito percorso costituzionale, il secondo, l’Autonomia differenziata che nel proposito del ministro Calderoli non si vorrebbe neanche far passare, tanto appare maleodorante, dal Parlamento.
Si dà il caso però che sono questi i due cardini contraddittori a costituire il patto di ferro tra due sole forze politiche della coalizione di governo: FdI e Lega. Forza Italia, limitandosi a pretendere una soluzione oltremodo scabrosa al problema della giustizia, resta nei fatti fuori dal patto vero contratto fra Meloni e Salvini. Non solo. L’Autonomia differenziata, finalizzata a infliggere un colpo mortale al Sud, resta l’unico legame che tiene ancora insieme la Lega di Salvini e quella di Zaia. Di fronte a questo quadro la premiere Meloni, sentendosi sguarnita al Sud, terreno tradizionale del consenso della destra, pretende in compenso il premierato. I due provvedimenti, per quanto siano giocoforza costretti ad avvalersi di tempi istituzionali diversi, danno l’impressione di procedere di pari passo.
I due alleati, com’è noto, non si fidano l’uno dell’altro. Ma c’è di più. A Letta non sarà sfuggito che i due provvedimenti, di là della complicata tempistica parlamentare, siano ineluttabilmente destinati a confliggere. Mentre infatti l’Autonomia differenziata tende a decentrare alcuni poteri in mano alle regioni, meglio, ai loro presidenti, il premierato, i poteri, li accentra nelle mani del premier. A un uomo come Letta, intriso di cultura istituzionale, non sfuggono questi dati controversi della riforma. Non sfugge per esempio che a farne le spese non potrebbero non essere, oltre il Sud, il Parlamento e la figura stessa del Presidente della Repubblica. Il primo appare ormai da tempo terribilmente debilitato, ridotto com’è nei numeri e con l’iniziativa legislativa ormai da tempo in mano al governo. Figuriamoci cosa diventerebbe con il premierato.
Al Presidente della Repubblica, figura di garanzia – è qui si è soffermata in particolare la critica di Gianni Letta – verrebbero sottratti il potere di nomina del capo del governo, quello di sciogliere le Camere e anche quello delicato di “persuasione e di influenza”, a suo tempo esaltato da Meuccio Ruini. Un potere felpato, essenziale che in special modo con la Presidenza di Sergio Mattarella ha toccato l’apogeo. Non è un caso che sia stato implorato di restare per un secondo mandato. Per una strana coincidenza, che ovviamente non ha nulla a che vedere con il progetto di riforma, la spoliazione dei poteri del Quirinale avverrebbe in concomitanza con sondaggi molto favorevoli al capo dello Stato. Uno in particolare, pubblicato circa un mese fa, dal quotidiano Repubblica, stabiliva che due italiani su tre manifestano il più alto grado di fiducia nei confronti di Mattarella.
Due parole infine ancora su Gianni Letta e sulla sua inusitata presenza mediatica di questi giorni. Per lui, titolare, negli anni del governo Berlusconi, di un potere penetrante, ma sempre schivo, l’intervento sulla stampa dell’altro ieri rappresenta un unicum che contraddice una vita, sul piano politico, contrassegnata, più che dalle luci della ribalta, dal fascino riposto del backstage. In assenza di Berlusconi la sua “uscita” assume il significato di un lascito proveniente dall’aldilà che lui stesso, nel discorso di commemorazione tenuto alla Camera, aveva, con un certo giustificato pudore, in un certo senso anticipato