Dal prossimo 16 gennaio l’autonomia differenziata comincia il suo vero iter al Senato. Purtroppo, com’è stato più volte scritto, questo provvedimento porrà la pietra tombale su di un Sud ormai ridotto, tra disoccupazione giovanile e abbandoni, un territorio pressoché larvale. Confesso che per un po’ ho sperato che i presidenti delle regioni meridionali, specie quelli di centrodestra, e la stessa Giorgia Meloni avrebbero alla fine frenato l’iniziativa parlamentare di Calderoli. Anche perché nei vecchi equilibri del consenso il Sud ha sempre rappresentato la riserva elettorale della Destra.
Evidentemente mi sbagliavo perché quando esiste tra due partiti un patto da rispettare, specie se insano, nel nostro caso autonomia differenziata e premierato, i due contraenti sono costretti a proteggersi a vicenda per realizzare i rispettivi obiettivi. Vi si faccia caso. Salvini ha oggi un bisogno disperato dell’autonomia nell’illusione di potere resistere alla fronda di un partito che al Nord scalpita infinitamente di più di quanto all’esterno non appaia. Sull’altro versante, inebriata dallo strepitoso successo realizzato alle elezioni politiche del 2022 grazie all’astensionismo provocato in buona parte dalla legge elettorale e agli errori smisurati commessi dall’alleanza del centrosinistra ma soprattutto dal Pd, la Meloni punta decisamente all’approvazione costituzionale del premierato e alla vittoria dell’eventuale referendum. Entrambe a portata di mano. A quel punto le basterà cedere al secondo partito dell’alleanza, verosimilmente alla Lega, la figura del Presidente della Repubblica, notevolmente svuotato delle sue attuali funzioni costituzionali, per potere governare in libertà da palazzo Chigi. Particolare curioso. L’Italia affiderebbe quindi ad un esponente della Lega, magari a Salvini o a Zaia, secessionisti d’antica data, il simbolo più prezioso della nostra storia, l’unità del Paese.
Meloni non si è mossa male
Confesso di non essere annoverabile tra i critici, oggi in forte aumento, dell’attuale presidente del Consiglio. Se si esclude una qualche incertezza a prendere le distanze da certi arcaici cimeli del passato e al netto del grave infortunio di Cutro, sul piano operativo non si è mossa male. Appena ricevuta la fiducia dalle Camere ha mollato, sull’esempio di Conte, gli ormeggi della politica interna, fonte di innumerevoli affanni, e si è rifugiata all’estero, dove ha cominciato a tessere, aiutata dall’essere una giovane donna e dalla conoscenza di alcune lingue straniere, una buona ragnatela di rapporti. Operazione non semplice vista la sua penalizzante provenienza storica. Riuscisse a smussare alcuni angoli spigolosi del suo carattere, la sua azione di governo apparirebbe più convincente. Faccio un esempio. Quando in Parlamento o in conferenza stampa le rivolgono una domanda un po’ puntuta – non capita spesso – la sua risposta sembra provenire da un deposito di memorie denso di antico livore. Un atteggiamento tipico di una persona costretta da sempre all’angolo e quindi permanentemente reattiva. Si coglie a occhio nudo in queste occasioni che fa ancora una grande fatica a comprendere che la nobile funzione del governare si espleta non sulla base di umori incongrui, ma in funzione dell’interesse generale del Paese.
Scarsa qualità della compagine governativa
Naturalmente nel giudizio complessivo che si dà del suo impegno di governo bisogna considerare la scarsa qualità della compagine che la Meloni è stata costretta a raffazzonare alla bell’e meglio nell’angusto perimetro del centrodestra. Una compagine tra le più modeste della storia repubblicana. Quest’ultimo elemento, se per un verso indebolisce la presidente del Consiglio perché fa apparire assai limitata l’azione corale dell’esecutivo, per un altro, per effetto dell’esercizio naturale della comparazione, piuttosto ricorrente in politica, la rende smagliante. A Raffaele Fitto, che si è portato dietro a palazzo Chigi, ha inteso affidare le deleghe più importanti. Tale decisione dipende probabilmente da due motivi. Il primo. Il parlamentare pugliese proviene dalla Dc, dal partito di governo per antonomasia e ha svolto in passato il ruolo di presidente di regione e di ministro. Circostanza che fa curriculum in un governo così visibilmente ricolmo di apprendisti. Il secondo motivo della scelta – vado a tentoni – è possibile appartenga alla sfera della riconoscenza.
Il ministro pugliese negli anni passati ha svolto in Europa, in favore di Giorgia Meloni, un delicato ruolo di apripista. Purtroppo questi due fattori positivi, Meloni e Fitto, che il centrodestra può oggi esibire, dubito che resisteranno a lungo. Una volta oltrepassato il traguardo delle elezioni europee, i problemi del Paese, a cominciare dall’autonomia differenziata, sono convinto esploderanno fragorosamente. In tali casi, per un istinto di sopravvivenza, la maggioranza dell’elettorato solitamente volge lo sguardo verso l’opposizione, dove purtroppo da tempo arde un conflitto insanabile. Non su temi irrilevanti. In politica estera e in politica interna. Un bel problema per gli italiani condannati a disertare, chissà ancora per quanto tempo, le urne