La presidente dell’Anci Calabria, Rosaria Succurro, ha assunto, sull’autonomia differenziata, una posizione assai critica e non priva di coraggio. E’ infatti convinta che questo provvedimento, appena varato dal Senato, sia altamente nocivo per l’intero Mezzogiorno, in maniera particolare per la Calabria, la parte più dolente di questo vasto territorio. E’ in buona compagnia. Tutti gli organismi istituzionali neutri del nostro paese, con l’aggiunta della Cei del cardinale Zuppi, prevedono che con gli effetti dell’autonomia differenziata il Sud sia destinato in poco tempo ad andare definitivamente in malora. Certo la sua posizione coraggiosa ha provocato alcune polemiche palesi con la Lega e altre striscianti con il suo partito, Forza Italia. Ma non è il caso di scoraggiarsi. La politica, tra le tante realtà complesse che costellano il pianeta, è largamente la più complessa. Si tratta infatti di un mondo avvezzo ad improvvisi mutamenti di rotta. Non mi stupirei se nei prossimi mesi, fra le figure che hanno oggi il compito di guidare la regione, maturasse sul tema un fiotto di provvidenziale resipiscenza. Non ci sarebbe nulla di strano.
Se un italiano ricorda le posizioni assunte dall’attuale premier nei tempi in cui appariva collocata nella frontiera dorata dell’opposizione e le confronta con quelle che è costretta, sugli stessi temi, a tenere da quando si è insediata a palazzo Chigi, non può non avere un trasalimento. Non esiste un solo argomento sul quale, in questi mesi di governo, non abbia cambiato opinione rispetto agli atteggiamenti del passato.
Urge una battaglia politica
Da calabrese spero che, appena sarà del tutto caduta la burla dei Lep, si possa fare, sul tema in questione, una battaglia politica che veda insieme tutte le forze politiche e sindacali del territorio, indipendentemente dalle casacche indossate. A cominciare dai sindaci che, ieri come oggi, svolgono spesso in Calabria un ruolo d’avanguardia civile. L’ideale sarebbe che a capeggiare una protesta contro il Governo e il Parlamento scendesse in campo, per il peso istituzionale di cui è portatore, il presidente della regione. So bene che la stagione politica dei nostri giorni, spogliata ormai della passione ideologica del passato, spinge a veicolare le proprie battaglie, più che sulle piazze, sui social. Si tratta però di una piattaforma volatile che non lascia alcuna traccia nella mente degli uomini. Nella mia memoria invece, quasi per contrappasso, riaffiora un avvenimento epocale di tanti anni fa che ha visto la Calabria protagonista di una ribellione civile contro il Governo del tempo. Nella seconda metà degli anni ’70 per un tema, (una delle tante vertenze sul lavoro) che, visto a distanza, appare, come portata sociale, del tutto inferiore alla vastità del dramma che sul nostro territorio provocherà l’autonomia differenziata, la regione si mobilitò in massa in direzione di Roma.
Una protesta corale che vide circa 35 mila calabresi, (i sindacati protagonisti assoluti dell’organizzazione di quel viaggio, i parlamentari, i consiglieri regionali e provinciali, i sindaci, i segretari di partito e tanti operai disoccupati) precipitarsi a Roma con ogni mezzo di trasporto per protestare nei confronti del Governo nazionale. Quell’esercito che mosse alla volta della Capitale fu guidato dal presidente della Giunta regionale del tempo, Aldo Ferrara, un personaggio di qualità, appartenente alla Democrazia cristiana, lo stesso partito del presidente del Consiglio dei ministri che all’epoca era Giulio Andreotti. Fu una vampata di sdegno corale che attraversò l’intera Calabria. Per un giorno tutti i temi divisivi della politica regionale furono dimenticati. A Roma si presentò una Calabria compatta e orgogliosa. Ricordo quella giornata perché, sia pure in un ruolo assai defilato, vi presi parte. Ero un collaboratore del Presidente della giunta regionale e come tale fui autorizzato, insieme ad una folta delegazione, a fare ingresso nell’ampia sala di palazzo Chigi.
Per quegli imponderabili percorsi della memoria che rischiarano di luce viva i fatti del lontano passato e ingarbugliano quelli recenti, ricordo con nitidezza lo scenario di quella giornata. Andreotti, come nei consueti riti istituzionali, entrò quando la sala era gremita. Invitò Ferrara a sedersi accanto a lui e presto le sedie del lungo tavolo furono occupate. Il presidente del Consiglio si era appena seduto quando scorse, confuso tra i tanti calabresi presenti, Giacomo Mancini. Si alzò e andò platealmente a salutarlo invitandolo a sedere. La riunione durò qualche ora.
La Calabria non ottenne la luna ma solo una forte attenzione al tema dell’occupazione che Ferrara pose con forza, in certi passaggi, con rabbia, nel silenzio della sala. Non fece sconti ad Andreotti, suo compagno di partito e di corrente. Allora si usava così. La rappresentanza del territorio e dei suoi diritti prevaleva sull’amicizia, sulla militanza, su tutto