Il fastidio di pensare – Il mondo dietro la telecamera

Incontrai Sgarbi due volte, in tempi ormai lontani, all’epoca dei suoi anni ruggenti

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Incontrai Vittorio Sgarbi due volte, in tempi ormai lontani, all’epoca dei suoi anni ruggenti. Lui era nel pieno della sua popolarità, inseguito da televisioni, giornali, organizzatori culturali che gli si genuflettevano innanzi e gli proponevano ogni sorta di cose. Bastava accendere un televisore o aprire una rivista e prima o poi compariva il suo volto o la sua firma, nonostante il suo atteggiamento scorbutico e offensivo. Entrambe le nostre conversazioni non durarono che pochi minuti. Io mi ero proposto di sfruttare la fama di colui che era in quel momento l’indiscusso vate della critica nazionale per mostrargli alcuni artisti calabresi che ritenevo sottovalutati, ma l’uomo che mi si mostrò fu, rispetto a quanto mi aspettavo, insolitamente calmo e indolente: a lui di parlar d’arte poco interessava. Era interessato solo (per dirla eufemisticamente) alle ragazze, e quando capii che da questo non c’era modo di smuoverlo, non insistetti oltre.

Poi, a freddo, ragionai su chi mi fossi trovato di fronte. Era evidente che l’uomo che avevo incontrato poco somigliava all’individuo isterico e rissoso che la nazione era abituata a conoscere. E questa discrepanza tra lo Sgarbi pubblico e lo Sgarbi che avevo avuto ogni volta davanti mi fece riflettere su quella maschera che con superba maestria era riuscito a costruirsi, e su quel potere delle telecamere che avevano così banalmente ingannato anche me che ero un così modesto telespettatore.

Mi venne in mente l’analisi che Guy Debord aveva accennato appena all’inizio dell’invasione televisiva

Mi venne in mente l’analisi che Guy Debord aveva accennato appena all’inizio dell’invasione televisiva, prima che questa si impadronisse della nostra vita e  – ad esempio – persone prese a caso, per il solo fatto di stare chiuse in un appartamento, si scoprissero improvvisamente delle star: esiste solo ciò che sta dietro una telecamera. E a lui era stata data questa possibilità quando, a un certo punto di una vita fin lì modesta, si era trovato in una poltrona di quello che grazie alla telecamera era diventato il salotto più popolare d’Italia. Ma gli ospiti si consumano in fretta, la televisione logora tutto velocemente e il pubblico ha bisogno continuamente di carne fresca. E capì che presto sarebbe toccato anche a lui. Quello dell’intellettuale è un ruolo che in Italia ha sempre pagato poco, e può aspirare al massimo a qualche angolo in trasmissioni che non interessano a nessuno fino a terminare presto il suo ciclo, sostituito da tutta una fila di dotti che già gli scalpitano dietro. E così capì di doversi inventare un personaggio creando una maschera che lo differenziasse da tutti gli altri. E ne inventò una che in Italia funziona sempre: quella dell’attaccabrighe, irascibile e offensivo. In un paese serio non sarebbe durato un paio di settimane, ma questo è un paese di magliari con una cultura da piazza che adora le risse e il turpiloquio, in cui la cultura non fornisce un aggravante ma semmai una sorta di assoluzione. E la sua fortuna fu fatta.

Da quel momento viaggiava su doppi binari: la condanna morale e la giustificazione culturale. Il personaggio era, ed era tutto ciò che importava, vendibile. Quando si sapeva che era ospite da qualche parte subito tutti cambiavano canale pronti ad aspettare le sue urla offensive in stile teatrale che puntualmente arrivavano. E tutti pronti a biasimare che un simile personaggio abbia spazio in televisione: detestato e condannato, ma nessuno se lo sarebbe perso.

La popolarità è un meraviglioso amplificatore

I vantaggi che ne ottenne furono straordinari su ogni piano. La popolarità è un meraviglioso amplificatore, e l’Italia s’accorse di possedere un genio. Biasimato ma osannato da un mondo che si voleva mostrare colto sfidando le apparenze, andò incontro alle frustrazioni intellettuali di una società. E l’editoria gli si prostrò innanzi per colmare questa improvvisa fame di cultura artistica della nazione, cominciando a sfornare a ritmo prodigioso libri, videocassette, articoli a cui il nome bastava per trasformarli in straordinari bestseller. Divenne l’esperto d’arte per antonomasia fin negli ultimi recessi della nazione e nessuno gli contestò la genialità critica, anche se quasi nessuno poi aveva mai sentito parlare di Longhi, Argan, Venturi e via dicendo, i cui testi vendono appena qualche migliaio di copie solo in prossimità di qualche facoltà universitaria. Ed infine, come è d’uopo per chi è famoso, gli si spianò una carriera politica straordinaria che lo avrebbe portato ad essere più volte sindaco, onorevole, sottosegretario.

Naturalmente Sgarbi non è l’unico ad avere cavalcato questo metodo. A ben vedere l’industria culturale sfrutta da sempre con enorme sagacia i canali che arrivano all’uomo medio per vendergli di tutto sfruttando le sue frustrazioni e distraendolo dalle sue noie. E si serve del potere suadente dello schermo di fronte a spettatori nudi e talvolta ne mostra il potere terrificante. Non importa quel che si dice o cosa si faccia: l’importante è che avvenga dietro una telecamera. Quel che accade fuori da quel quadrato smette di esistere. Sgarbi ne è stato solo il più geniale approfittatore. Ed ha inoltre inaugurato, ma ne resta l’inarrivabile maestro, una certa televisione di mediocri imitatori. Il che spiega alcuni vizi della televisione italiana. Di alcune figure, talvolta anche valide, che avendolo intuito hanno cominciato a sgomitare per guadagnarsi il loro piccolo spazio in quei piccoli agoni illuminati dai riflettori dove andare a guaire. Perché solo lì davanti otterranno il loro imprimatur invece che in un ristrettissimo microcosmo intellettuale. Non importa chi sei, cosa hai scritto: importa solo che la gente veda il tuo volto, che sappia che esisti. Che da studioso tu divenga un personaggio, e solo allora ti verrà riconosciuto uno status di scrittore, di filosofo, di intellettuale: altrimenti resterai confinato nelle aule oscure di un mondo intellettuale che in Italia corrisponde al nulla.

E tutto questo spiega anche perché in questo sventurato paese i dibattiti finiscono sempre a caciara. Non sono mai gli uomini, ma i personaggi che si sfidano. Tanto poi in quel grande palcoscenico che è lo studio televisivo l’audicence giustifica tutto, e solo se non sai gridare abbastanza forte ti potrebbe capitare il peggiore dei mali: quello di tornare nel mondo oscuro della gente comune.

 

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