Che futuro sulla previdenza in Italia?

Il Governo si trova davanti a scelte decisive sul futuro della previdenza in Italia

StrettoWeb

Dopo il deludente anno appena passato che in ambito previdenziale non ha portato nessuna significativa norma migliorativa ma anzi un peggioramento dei tre istituti di Quota 103, Opzione Donna e Ape Sociale che consentono un anticipo rispetto al pensionamento ordinario, il Governo ormai insediatosi da quasi un anno e mezzo deve affrontare una riforma previdenziale non più rinviabile e di cui i cittadini italiani hanno assoluta urgenza.

La situazione economica con due guerre in cui siamo indirettamente coinvolti non è delle migliori ma ci sono dei segnali positivi come la disoccupazione che seppure a fatica continua a scendere, con un’occupazione che a dicembre è leggermente aumentata e che in un anno è aumentata di circa 500.000 unità. Il PIL nel 2023 è aumentato dello 0,7% e perfino il debito pubblico per la prima volta da anni alla fine dell’anno è sceso di circa 13 miliardi. Sono miglioramenti minimali ma a questo bisogna aggrapparsi e da questi dati bisogna ripartire per far tornare l’economia italiana al posto che le compete in Europa.

Riguardo alla previdenza che da sempre è nel mirino della Ue per i costi definiti dalla Commissione esagerati e non in linea con gli altri Paese europei, come anche evidenziato dal recente report sulla previdenza in Italia di Itinerari Previdenziali si evince che il costo molto elevato pari a circa il 16,7% del PIL della previdenza è causato dal fatto che in Italia le due voci della previdenza e dell’assistenza risultano unite pur essendo due cose completamente diverse. Se nei dati che riguardano la previdenza continuano ad essere inserite voci come reddito di cittadinanza, pensioni di cittadinanza, cassa integrazione, indennità di accompagnamento, integrazioni al minimo ecc. ecc. è del tutto evidente che i costi comunicati fanno sì che l’Italia è al secondo posto dopo la Grecia per spese previdenziali.

Ma se si scorporassero le due voci il costo effettivo sarebbe di circa il 12% del PIL perfettamente in linea con gli altri Paese europei. E se poi da questi costi si togliesse anche l’IRPEF che incide per circa 60 miliardi e che ritornano con una partita di giro all’Erario questo costo scenderebbe addirittura sotto il 9% del PIL tra i più bassi dell’Europa. In pratica se dai 330 miliardi di costi complessivi si togliessero i quasi 100 miliardi dell’assistenza si scenderebbe intorno ai 230 miliardi e togliendo ancora i 60 miliardi di IRPEF si scenderebbe ulteriormente intorno ai 170 miliardi a fronte di versamenti contributivi di circa 210 miliardi annui. Ci sarebbe in pratica un avanzo annuo di circa 40 miliardi. In tal modo verrebbe completamente smentito quanto si legge ovunque sui costi della previdenza in Italia che invece sarebbero addirittura in attivo. Gli elevatissimi costi dell’assistenza che sono aumentati di quasi il 40% in poco più di quindici anni dovrebbero invece gravare non sulla previdenza ma sulla fiscalità generale e sostenuti dalle imposte e dalle tasse pagate dai cittadini italiani.

Ci si augura che il Governo intraprenda immediatamente questa strada della separazione dei due istituti così da poter operare una flessibilità in uscita dei lavoratori con una lieve penalizzazione e non come si sente troppo spesso in giro di operare tagli intorno al 20% conteggiando l’assegno previdenziale totalmente col metodo contributivo e lasciare, invece, il sistema misto fino alla sua naturale conclusione del 2036.

 

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