La Calabria ed i pregiudizi per i calabresi

Ho gioito quando Mimmo Lucano, da semplice sindaco di Riace, votato al dovere dell’accoglienza, è comparso nella rivista “Fortune”, unico italiano, tra gli uomini più potenti della terra

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Filippo Veltri è riuscito a animare uno straordinario dibattito, partendo da un vecchio articolo di Corrado Alvaro scritto per l’Espresso nel 1955. Un miracolo. In questo nostro tempo il dibattito, quello vero, in cui si dubita, si dissente e si apprende è, come tutti sanno, bandito dalla società contemporanea. Appartiene infatti a una stagione ideologica scomparsa per sempre, anche se molte persone della mia generazione ne avvertono l’assenza. Alcune in forma bruciante. Alvaro naturalmente scrive di una Calabria che non c’è più, anche se il pregiudizio su questo particolare territorio, tenace, appunto, come ogni pre-giudizio, che rappresentava già settanta anni fa un fardello pesante, è diventato oggi pesantissimo. All’epoca di Alvaro, gli italiani che avevano un minimo di cultura, conoscevano di sicuro qualche brandello di storia di questa difficile regione. Sapevano che il calabrese era stato per secoli un individuo a sé, colpito lungo l’arco dei secoli da due sventure, una ciclica: terremoti, alluvioni, frane. Quella che Giustino Fortunato definiva con una frase perentoria “la prepotenza dell’ingiustizia naturale”.

L’altra permanente: l’isolamento. Almeno fino alla costruzione dell’autostrada. Si era forgiato così, attraverso queste asperità spesso insormontabili, il carattere del calabrese. Un individuo dedito alla lotta, taciturno, spesso, nel bene e nel male, incline grazie a un istinto ingovernabile, a muoversi contro vento. Per un verso del tutto insensibile al fascino del suo mare, di cui non sembrava conservare nella propria antropologia alcuna memoria, sospinto verso i monti dai molteplici pericoli che quell’azzurra distesa ai suoi occhi rappresentava. Per un altro verso, sempre aperto all’accoglienza di naufraghi sconfitti, sbattuti dalla furia delle onde fin sull’uscio della sua casa. Si realizzava così una linea di continuità tra mitologia greca (nel forestiero si nasconde un dio, forse lo stesso Zeus) e cristianesimo (ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito).

Pregiudizi

Oggi quel pregiudizio, complice lo scadimento del livello culturale del Paese, si è ingigantito. Ma era abbastanza solido anche nell’immediato dopoguerra tanto da non risparmiare lo stesso Alvaro. Il professore Umberto Bosco, altro calabrese illustre (era nato a Catanzaro) grande studioso di letteratura italiana, poco prima della sua morte ricordava che “Corrado Alvaro per farsi largo – lui con il suo ingegno – aveva dovuto vincere, tra le forze che gli contrastavano il passo, l’ostacolo che gli proveniva dal suo essere calabrese”. Paradossalmente, a contribuire a costruire una trama non benevola nei confronti dei calabresi concorrono non solo i grandi inviati dei giornali del Nord, ma anche la letteratura. Questo lembo estremo d’Italia diventa infatti un luogo classico talvolta di alterità, talvolta di violenza: Penso al bambino calabrese descritto da De Amicis nel libro “Cuore” o ai quattro cognati, sempre calabresi, tratteggiati da Italo Calvino nel libro “Il sentiero dei nidi di ragno”.

L’episodio con Giorgio Bocca

A proposito di pregiudizio e di giornalisti, voglio raccontare un episodio che mi riguarda personalmente. Me ne scuso in anticipo. Nel 1993 il direttore del Messaggero, il mio grande amico Mario Pendinelli, m’invita a recensire l’ultimo libro di Giorgio Bocca “Metropolis”. Un giornalista che apprezzavo sia per le sue scelte tematiche sia per il suo stile fulminante. Del Sud scriveva in prevalenza male. A volte ci prendeva, tante altre volte, meno. Neanche lui riusciva a sfuggire al pregiudizio antimeridionale. Leggo il libro e scrivo la recensione. Dopo qualche giorno arriva un fax alle pagine della cultura del giornale in cui il grande giornalista si rivolge con tre righe direttamente a me, stilando un elogio non comune che solo per un soprassalto di pudore reprimo la voglia di riportare in questo articolo. Il direttore mi spinge a chiamarlo e ringraziarlo. Cosa che faccio. Appena Bocca sente il mio nome mi dice delle cose bellissime e m’invita a Milano. A questo punto, quasi preoccupato di tanta generosità, lo interrompo e gli dico: “Ma tu lo sai che sono un calabrese e anche un deputato democristiano”. Due bersagli ricorrenti delle sue invettive. Per qualche secondo il telefono resta muto, quando il grande Bocca riprende a parlare, il tono appare mutato, l’entusiasmo in parte scemato. Avverto disagio. Non vedo l’ora di interrompere la conversazione, cosa che faccio in fretta. Il rapporto si chiude lì.

Quel pregiudizio, come si vede, spesso resiste anche tra le persone colte. Molti italiani, nel valutare un fatto di sangue che ha luogo in Calabria, riescono nella maggior parte dei casi a stabilire una rigida linea di continuità mentale tra il brigantaggio postunitario, il bandito Musolino, che nel dopoguerra restò per molto tempo alla macchia nell’Aspromonte, fino alla ‘ndrangheta dei giorni nostri. Certo il fatto che la criminalità calabrese con la sua pervasività sia penetrata dappertutto, non solo nella grande parte delle regioni italiane, ma anche in Europa, rende spesso pesante certi giudizi sulla regione. Solo che per quei processi di generalizzazione, così diffusi nel nostro tempo, capita che si demonizzi ingiustamente in blocco l’intero territorio. Avverto un senso di vertigine quando mi viene fatto di pensare a quella grande maggioranza di calabresi onesti, perbene condannati dal destino sociale del luogo di nascita a pagare un doppio prezzo. Quello di vivere a ridosso della criminalità organizzata e quindi a pagare lo scotto della contiguità e quello di essere arbitrariamente assimilati, nel giudizio sbrigativo dei media, alla parte minoritaria che delinque.

Mimmo Lucano

Per questi motivi ho sempre tentato, specie quando ho ricoperto un ruolo istituzionale, di valorizzare tutti i gesti che collidono con la nomea imperante. Sono stato per esempio sempre emotivamente coinvolto dai tanti calabresi che irridono alla moda nazionale del tempo, prestando aiuto ai migranti, agli “ultimi della terra”. Ho gioito quando Mimmo Lucano, da semplice sindaco di Riace, votato al dovere dell’accoglienza, è comparso nella rivista “Fortune”, unico italiano, tra gli uomini più potenti della terra, accanto ad Angela Merkel, a papa Bergoglio. Ho gioito d’ammirazione perché il suo slancio generoso illuminava di una luce nuova frammenti di una storia millenaria, ma ho gioito soprattutto perché i suoi gesti, almeno per un giorno, riuscivano a infrangere la corazza del pregiudizio.

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