La mafia che uccide “silenziosamente”: mari avvelenati e morti che camminano

Esiste una pagina di mafia che uccide lentamente, avvelenando terra e acque: la nave dei veleni ed il coraggio di chi l'ha affrontata

StrettoWeb

Una giornata come il 21 marzo è, di certo, pesante: la primavera, la luce del sole ed il tepore dei suoi raggi non riusciranno di certo a lenire il significato, pesante quasi come un macigno, di questo giorno. Istituita nel 2017, oggi ricorre la “Giornata nazionale della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime delle mafie”. E quello che fa più male, purtroppo, è che sia una giornata tutta italiana: che sia mafia, ndrangheta, sacra corona unita o camorra, trattasi di un fenomeno prettamente nazionale che ha mietuto vittime nell’intero stivale.

E sì, la mafia sarà pure nata al Sud, ma riguarda ora tutto e tutti: dal regolamento di conti al disonore in famiglia, dalle terre alle proprietà, fino a giungere al narcotraffico, appalti e politica. La mafia è dappertutto, ma chi ci rimette sono sempre gli stessi: i “poveri cristi”, i lavoratori perbene, gli uomini di legge e chi lotta per un mondo migliore.

Ma ci sono vittime silenti, quelle inconsapevoli, che spirano tra le braccia di cari o in un letto d’ospedale per colpa di una malattia, molte volte fulminante. Perché se è vero che la mafia ha un codice d’onore ed ammazza, è pur vero “che è una montagna di merda” e, come tale, trova diversi modi per mietere morti.

Tanti, troppi, sono gli uomini e le donne che sono stati stroncati da quelle che definiamo “un male”, perché la parola ancora ci fa paura. Ma c’è una sottile linea che divide i malati “per fato” e quelli avvelenati: la mafia. In entrambi i casi, purtroppo, non si ha scelta: ma, mentre il malato per fato non sa con chi prendersela, gli ammalati per colpa di terre, mari ed aria contaminati sanno bene di chi è la colpa.

Il mare non dimentica: la nave dei veleni

Esiste una branca della criminalità organizzata che uccide “silenziosamente” e lo fa a discapito di tutti, anche della propria famiglia. Basta cercare il termine Ecomafia per venire a capo di un fenomeno alquanto sconcertante: parliamo di rifiuti tossici, scorie radioattive e chi più ne ha più ne metta, sepolte nelle acqua che bagnano il Mar Mediterraneo. Un modo “semplice” di smaltire rifiuti pericolosi per il bene di aziende e della mafia che, come il migliore dei pupari, le giostra.

Il fenomeno ricopre quasi 30 anni di storia, 30 lunghi anni in cui la morte è stata seppellita nel mare, precisamente nella costa jonica della Calabria: la gente moriva di malattie fulminanti, cadeva a terra come pere e senza sapere il perché. Eppure, abitare vicino al mare fa bene: non però quando quello stesso mare, di cui mangi i frutti e in cui ti fa il bagno, è avvelenato.

E di nave dei veleni, in Calabria, ce ne sono a bizzeffe – o, almeno, quelle che sono state ritrovate: parliamo della Cunsky a Cetraro – identificata inizialmente come la Catania dall’allora Ministro Stefania Prestigiacomo, desiderosa di archiviare al più presto il caso – che non conteneva solo rifiuti tossici ma anche i resti di due corpi umani. O la Rigel, inabissatasi “per caso” nel mare reggino con un pericoloso carico di uranio arricchito, a 20 miglia Sud-Est da Capo Spartivento nel 1987. O la Jolly Rosso, arenatasi sulle spiagge di Amantea nel 1990 e contenente, anch’essa, scorie radioattive. Navi di morte, e che hanno decretato la morte non solo di tanti cittadini, malati di tumori, ma anche di quei testimoni “scomodi” che, il mare, cercavano di salvarlo.

Il Capitano De Grazia, eroe “tra i fumi dei veleni”

Il caso del Capitano Natale De Grazia, di Reggio Calabria, figura in primo piano nel contrasto all’ecomafia ne è un lampante esempio: fino alla sua morte, avvenuta in circostanze sospette, combatté per svelare quei pericolosi segreti inabissati. Il Capitano, infatti, si stava occupando del caso delle navi dei veleni – in particolare Jolly Rosso e Rigel – ed era un personaggio troppo scomodo, da eliminare.

La sua morte, infatti, è sopraggiunta in una data ben precisa, 12 dicembre 1995, mentre si recava a La Spezia, insieme a due carabinieri, per rendere dichiarazioni in tribunale in merito alle indagini. De Grazia morì nella notte tra il 12 ed il 13, dopo aver pranzato in un ristorante nel salernitano. Solo nel 2012, venne a galla la verità: non era intossicazione, né tantomeno malore, ma il Capitano era stato avvelenato, come quello stesso mare che, fino all’ultimo, aveva cercato di proteggere.

Un eroe, come tutti gli ammalati che lottano per colpa di queste terre abbandonate da Dio e usurpate dalla malavita; solo una cosa, però,  non ci possono portare via: la speranza.

Condividi