Sì ad una equa riforma previdenziale, no al calcolo tutto contributivo

In ambito previdenziale siamo ormai quasi arrivati a trent’anni di calcolo contributivo dal momento che questo sistema di calcolo è stato istituito sotto il Governo Dini nel lontano 1995 ed è entrato in vigore il 1° gennaio 1996

StrettoWeb

In ambito previdenziale siamo ormai quasi arrivati a trent’anni di calcolo contributivo dal momento che questo sistema di calcolo è stato istituito sotto il Governo Dini nel lontano 1995 ed è entrato in vigore il 1° gennaio 1996. Quella legge prevedeva la distinzione dei lavoratori in tre categorie. Coloro i quali avessero avuto alla data del 31/12/1995 almeno diciotto anni di contribuzione avrebbero avuto il conteggio effettuato col sistema retributivo, chi avesse avuto dei contributi ma meno di diciotto anni avrebbe goduto del sistema misto vale a dire gli anni fino al 31/12/1995 calcolati col sistema retributivo e gli altri con quello contributivo ed infine i lavoratori che fossero entrati nel mondo del lavoro dal 1/1/1996 avrebbero avuto il calcolo effettuato esclusivamente col sistema contributivo.

Il colpo di grazia, poi, ci fu con l’istituzione a partire dal 1/1/2012 della famosissima Legge Fornero che stabilì per tutti il sistema contributivo. In partica il grosso cambiamento fu determinato dal fatto che l’assegno previdenziale non venne più conteggiato tenendo conto della retribuzione che si aveva al momento della pensione ma con il sistema contributivo essa veniva conteggiato con il cumulo dei contributi che ogni persona avesse versato in tutta la durata della sua vita lavorativa. Se questo sistema si può definire equo dal punto di vista strettamente economico (tanto hai versato tanto prendi) si è rivelato molto discriminatorio nei confronti del passato perché consentiva, una volta, assegni previdenziali molto più elevati in considerazione del fatto che negli ultimi anni di vita lavorativa la retribuzione è normalmente molto più elevata rispetto ai primi anni di ingresso nel mondo del lavoro.

Nei primi anni, alla fine degli anni Novanta, quasi nessuno si accorse del cambiamento perché essendo una legge che prevedeva una gradualità i pochi anni di contributivo rispetto a quelli di retributivo facevano diminuire di pochi euro la pensione che si sarebbe percepita. Ma con il passare degli anni questa situazione si è sempre più accentuata e le conseguenze sono state molto evidenti.

Consideriamo poi in fatto che seppure in Italia i versamenti previdenziali sono molto alti (il 33% dell’intera retribuzione) e sono tra i più altri tra i trentotto Paesi che aderiscono all’OCSE a causa delle retribuzioni troppo basse ed al fatto che negli ultimi vent’anni queste sono state praticamente ferme si è verificata una stagnazione dei versamenti che, giocoforza, ha determinato assegni previdenziali sempre più bassi. La media degli assegni ogni anno è in continua costante diminuzione di circa venti/trenta euro al mese con assegni di circa 1.200 euro e non ci vuol molto a capire che nei prossimi anni si possa arrivare ad importi di 1.000 euro, oltretutto lordi.

Già nell’ultima Legge di Bilancio il Governo ha approvato la Quota 103 (costituita da 62 anni di età con 41 anni di contribuiti) e per chi intendesse accedere a tale istituto è stato imposto il calcolo totalmente contributivo anche in presenza del sistema misto. Ora, sembra, che l’Esecutivo stia lavorando alla famosa “Quota 41” per tutti indipendentemente dall’età anagrafica (tanto cara a Salvini) ma sempre con calcolo totalmente contributivo. In pratica verrebbe consentivo per sfuggire alla rigidità imposta dalla Legge Fornero di poter anticipare di uno/due anni l’uscita dal mondo del lavoro accettando una decurtazione per sempre del 10/15% del proprio assegno previdenziale. È abbastanza ovvio che quasi nessuno, a meno di situazioni particolari, accetterebbe questa opzione che per anticipare di poco l’uscita dal mondo del lavoro lo danneggerebbe economicamente per tutta la durata della vita destinando esclusivamente sul lavoratore il costo dell’eventuale anticipo. Non è tollerabile che dopo 41 anni di lavoro effettivamente svolti ci sia una decurtazione sulle già magre pensioni.

Sento affermare che consentire il pensionamento con 41 anni di contribuzione mantenendo il sistema misto costerebbe moltissimo (addirittura 9 miliardi annui) ma nella realtà il costo sarebbe molto minore perché i lavoratori che arrivano a 41 anni di contribuiti sono sempre meno e stanno diminuendo progressivamente a causa della frammentazione del lavoro e del fatto che i giovani, purtroppo, accedono stabilmente al mondo del lavoro non prima dei 28/30 anni. Inoltre, in questi teorici conteggi, non viene mai considerato il fatto che trattandosi di un’opzione non tutti accetterebbero l’uscita e gradirebbero, invece, per implementare l’importo, rimanere fino all’età della pensione di vecchiaia ora fissata a 67 anni.

Sono quindi convinto che il sistema misto debba rimanere fino alla sua naturale conclusione e che sia necessario pensare in modo diverso ad una riforma mettendo il lavoratore al centro delle proprie scelte previdenziali consentendo una grandissima flessibilità a partire dai 62 anni che si estenda fino a 70 anni. Ogni singolo lavoratore purché sia in possesso di almeno venti anni di contributi e abbia un assegno di pensione che sia di almeno una volta e mezza il trattamento minimo potrebbe uscire in qualsiasi momento a sua scelta dal mondo del lavoro. Da eliminare, inoltre, a parer mio il pensionamento obbligatorio a 65 anni nel pubblico impiego a chi è già in possesso dei requisiti per la pensione anticipata e il divieto a chi si è pensionato con le quote 100,102,103 di poter lavorare in altri ambiti.

Condividi