Alla fine, in qualche modo, il padre di Ilaria Salis una candidatura alle prossime elezioni la ha rimediata. In uno Stato come l’Italia a sbraitare e a fare l’offeso qualcosa si ottiene sempre. Naturalmente è ancora risentito e non si esime da qualche frecciata. Con sublime eleganza, subito dopo la candidatura s’è affrettato a dichiarare che lui avrebbe preferito l’altro partito, un po’ come uno che venga invitato a cena ma subito dopo aver preso posto a tavola ci tenga a precisare che si trova lì solo perché nei ristoranti buoni non lo hanno fatto entrare. Ma in fondo va bene anche così. In un paese come il nostro un po’ di strepito e un curriculum da vittima ed ecco che subito diventi un problema nazionale, anche se hai da proporre perlopiù dichiarazioni insensate. “Chi ci rappresenta si deve occupare del fatto che venga applicata la legge, ma anche che la nostra legge venga rispettata negli altri paesi”, e nessuno si preoccupa di spiegare all’illustre genitore uno dei principi elementari della giurisprudenza, e cioè che il limite della legge è il territorio nazionale di uno Stato.
Lui invece pretende la gestione ad usum personae di diversi cardini della cultura occidentale: vuole che la legge di uno Stato si applichi anche in un altro Stato; si scandalizza che a sua figlia non venga riconosciuto alcun privilegium di cittadinanza e che quindi venga condotta davanti alla corte in catene, come una qualunque imputata ungherese; pretende che in un processo (che in uno Stato che abbia un minimo si serietà è confine esclusivo del potere giudiziario) si intrometta il potere l’esecutivo (cioè, detto in termini banali, che i processi vengano “raccomandati” dalla politica). Non fa che lamentarsi infatti che la Presidente del Consiglio non si sia fatta sentire presso il suo omologo ungherese e si rivolge direttamente alla Presidenza della Repubblica. Ma viviamo, scrive Daniele Giglioli, in un’epoca in cui il vittimismo è una nuova forma di eroismo, in cui basta la patente di vittime per diventare dei martiri e degli eroi del nostro tempo.
Noi umanamente ci compenetriamo nell’afflizione di questo genitore e nella tragedia affettiva di chi vede la propria figlia coinvolta in un processo con la prospettiva di una condanna che rischia di essere piuttosto seria. Ma si tratta, per l’appunto, di un dramma affettivo. Una occasione troppo ghiotta affinché certa stampa nostrana, nel paese del melodramma, non la trasformasse con una spruzzata di falso intellettualismo in caciara da prima serata e da prima pagina. E non ci uniamo al coro di chi lo rimprovera fin troppo facilmente che, se voleva essere un buon padre, avrebbe certo avuto molto tempo per intervenire prima, vedendo questo processo come l’ultimo di una lunga serie in cui questa figlia innamorata dell’ideologia estremista si è distinta con azioni ben poco esemplari che più volte la hanno portata in questura e davanti ai giudici. Insomma, a scavare un po’ dietro il placido sorriso della maestrina monzese si scopre che non è proprio una figura alla De Amicis. Ma è una critica troppo facile. I genitori danno indicazioni, consigli, una dirittura morale, ma poi i figli seguono ognuno la propria strada figli, appunto, ognuno del proprio tempo e di quello che incontrano strada facendo. Ma non per questo i genitori li abbandonano poi alle conseguenze delle loro scelte, se anche dovessero continuare a ripeterle ancora e ancora.
E se quindi Roberto Salis ha l’onere della paterna preoccupazione noi abbiamo però quello di analizzare l’episodio con distacco e serietà. E riflettiamo che per l’appunto, una volta scelta la lotta, bisogna poi accettarne conseguenze e imprevisti, e non cominciare a frignare se le cose poi non vanno come si sperava. Se combatto contro lo Stato poi non mi devo lamentare se lo Stato si difende con quelli che sono i suoi mezzi e apre le porte di tribunali e carceri. Noi naturalmente in attesa di sentenze non ci pronunciamo sul processo di Ilaria Salis e ci auguriamo che si tratti solo di un gigantesco e squallido equivoco, ma il modo in cui ne vuole uscire dalla porta di servizio ci porta a qualche riflessione. Certi rivoluzionari italiani hanno una concezione un po’ troppo all’italiana dell’eversione. Con un codice penale all’acqua di rose, che qui si risolve con sentenze dove alla fine tra una cosa e l’altra il carcere è solo un mordi e fuggi, credono quindi di potere andare all’estero con la stessa forma mentis e poi scoprono che lì, invece, il mondo è un po’ più serio e per certe cose che qui sembrano sciocchezzuole lì rischi quanto qui non ti darebbero per un omicidio e in tribunale ti ci accompagnano in catene.
E allora si scopre che forse i rivoluzionari è meglio farli in Italia, a costo zero o, come diceva Longanesi, strizzando l’occhio ai carabinieri. E quindi poi la soluzione migliore è scappare, come hanno fatto tutti i terroristi italiani quando, coraggiosamente, alla resa dei conti si sono rifugiati chi a Parigi, chi nel Sud America, chi nei paesi sovietici aspettando grazie compiacenti, approfittando anche della mano tesa di qualche partito politico. La democrazia non dovrebbe prestarsi a questo, naturalmente: dietro la sua conquista ci sono ben altre finalità. Ma in Italia la democrazia non è un prodotto locale e come tutta la roba d’importazione non se ne è mai compreso bene lo spirito che la ha originata, e si vede come adattarla alle diverse circostanze.
È sempre stata qualcosa di elastico, dietro cui con la scusa di finalità collettive si sono non di rado nascosti usi che erano solo personali, quando addirittura i legulei di turno non ci vedevano solo i benefici giuridici legati alla carica. E quindi siamo costretti, tragicamente, a stimare quei pochi terroristi che, arrestati, hanno affrontato il carcere a testa alta senza pentimenti di comodo e senza frignare con scioperi della fame, occhi lucidi e denunce varie. Loro, se non altro, abbracciata un’idea, per quanto abominevole e deleteria hanno accettato di portarne avanti le conseguenze con una certa dignità e senza chiedere sconti. Non sembrano neanche italiani in un paese dove l’ideale, alla prima occasione, viene barattato con un posto a tavola.