Smanetto sui social ormai da tempo, ma non sono una di quelli che, nella prima era del digitale, aveva la linea Internet a casa, quando ancora costava un rene. Anzi, forse sono l’ultima delle sopravvissute all’adolescenza senza social, senza gif stupide, senza videochiamate e balletti imbecilli. Certo, quelli li facevo anche io ma con il folto gruppo di cugini o con le mie due migliori amiche, sognando di essere una superstar sul palco all’O2 di Londra.
La caducità dei social
Tralasciando i ricordi, chiusi nei cassetti perché – e fortunatamente – sono stampati, vi dicevo che anche io faccio uso, a volte spropositato, dei social e, solo da poco, mi sono effettivamente resa conto della loro caducità. Perché un ricordo, un’immagine, un video e una canzone potranno sì essere condivisi con chi si vuole in pochi istanti ma, allo stesso tempo, l’unica memoria che vanno a “riempire ” è quella del nostro cellulare.
Mi domando dunque, in questa era fatta di autoscatti, di reel, di filtri e di cap cut, in questo periodo dove tutto appare in modo diverso da ciò che è, come sia possibile recupera l’intimità e la bellezza di un ricordo sincero, autentico, personale. Ma soprattutto, mi domando come sia possibile condividere e dare in pasto a tutti – hater compresi – la caducità non solo dei ricordi, ma della vita stessa di una persona.
Come in un horror: la morte che diventa show
Apro Instagram, scrollo sulla home e mi trovo il video di un ragazzo tutto giallo, in un hospice che rantola. E’ chiaramente disperato: si vede che è giovane, si vede che sta morendo. E sua moglie, invece di stare lì a godersi il marito quanto più possibile, ad assaporare quello che potrebbe essere l’ultimo suo passaggio sulla Terra, decide di piazzare un cavolo di telefono sulla sua faccia per riprenderlo.
Ed è lì che qualcosa è scattato nella mia testa: siamo così affamati di approvazione che anche la morte è diventata spettacolarizzazione. Usiamo la nostra sofferenza e quella dei nostri cari (che poi così cari non ci sono se li postiamo sui social nei momenti più vulnerabili) per monetizzare. Potrebbe anche andare bene così, in questa era spietata di concorrenza social, ma è significativo notare come la nostra umanità sia andata a farsi benedire.
Ho visto gli ultimi attimi di vita di una persona e sono sconvolta. Ho visto gli ultimi attimi di vita di una persona e non ho potuto fare a meno di continuare a guardare, di cliccare sul profilo che ha postato quel video, di vedere la vedova che si è rifatta una vita dopo 6 mesi con un altro tizio e intanto posta consigli su come “curare” il cancro al colon, lo stesso che ha colpito e ucciso il marito.
“Restiamo umani”
Ho sentito un sapore amaro e pungente in fondo alla gola, era quello del disgusto. Il disgusto che mi fanno quelli che rendono pubblica una cosa del genere, e quello che ho provato per me stessa che ho continuato a scavare come un’ossessa nella distorta speranza di vedere più volti gialli e consumati dalla malattia, di leggere commenti e di ascoltare le musichette tristi di sottofondo.
Basta. Ho chiuso il cellulare, ho messo il guinzaglio alla mia cagnolina e sono uscita. Cerco di recuperare il contatto con l’umanità sentendomi un pochino viva, facendo cose reali. E poi, forse, penserò a come bloccare questo schifo: non cadrò nel tranello della speculazione sui morti. Celebriamoli in vita e in memoria, e preserviamo la loro dignità. Perché la morte non guarda in faccia a nessuno, ma milioni di sconosciuti tramite uno schermo, sì.