Siamo figli di Pitagora, di Zaleuco da Locri, di Tommaso Campanella e Gioacchino da Fiore. Siamo la culla della Magna Graecia, abbiamo dato i natali a filosofi, storici e matematici. E pure ai purissimi, come San Francesco da Paola. Siamo letterati, abbiamo il seme della genialità intrinseco e siamo, dunque, anche santissimi. Eppure, nel 2024, ci siamo ridotti con le pezze sul deretano e a fare il ballettino stupido su TikTok.
“Mentre il mondo cade a pezzi” – canta Marco Mengoni. “Mentre la Calabria va allo scatafascio”, aggiungo io. Perché nella terra dove l’intelligenza la faceva da padrona, dove a governarci era l’arte della scienza e dove, nelle nostre vene, scorreva il sangue dei Briganti, ci siamo ridotti a sottometterci all’ingiustizia? Che fine hanno fatto quegli ideali, quella forza di pensiero, la caparbietà e, soprattutto, la voglia di riscatto e conoscenza? Eppure non fingiamo, perché stupidi lo siamo davvero e quindi non conosciamo.
E dobbiamo ammetterlo, di essere stupidi, perché con ‘sta carrellata di predecessori un po’ di sale in zucca dovremmo averlo ereditato. E invece accettiamo passivamente un destino appeso al filo della disonestà, del qualunquismo, della sopportazione e, soprattutto, del clientelismo. Perché se è vero che siamo stupidi, è pur vero che quel briciolo di intelligenza che ci è rimasto lo impieghiamo per scegliere e farci governare da incompetenti.
Noi, discendenti della Magna Graecia, che abbiamo avuto la fortuna di poter assistere al primo assaggio di “repubblica” con le polis greche, indugiamo nella manipolazione di tipetti senza spina dorsale, che la “cosa pubblica” la fanno diventare personale. O meglio, la spina ce l’hanno, ma sta dritta solo per gli inciuci privati. E quindi, mentre Lilio il Cirotano inventava il tempo, noi inventiamo qualsiasi scappatoia per farla franca e rifuggire dagli errori che commettiamo.
Perché a noi, della “res publica” ce ne sbatte assai. Altrimenti quei furbi seriali, tra un commissariamento e un’indagine, non avrebbero manco la faccia di presentarsi in giro, figurarsi sullo scranno della città. Eppure, tra procedimenti penali in corso, c’è chi torna ad essere il sindaco di Trebisacce dopo averla mandata al commissariamento.
E chi, come un certo reggino che fa rima con libertà, condanna la città prima al commissariamento (sembra quasi una tappa obbligata), poi reintegrato alla carica di sindaco, poi coinvolto nell’ennesimo scandalo, e ancora sta lì, senza avere la crianza di dire “beh, forse forse non è cosa mia gestire la “cosa”.
Ma questi sono lì non perché furbi o discendenti di stirpe geniale, sia chiaro: sono lì perché c’è qualcuno che ancora li loda, li difende a spada tratta e preferisce indossare i paraocchi. Occhio non vede, cuore non duole, si dice. E lì, non sono gli ideali che parlano ma le opportunità che hanno promesso.
Bruno Misefari, anarchico di Palizzi e filosofo moderno, parlava di rivoluzione e lotta ai tiranni in nome della libertà. Tommaso Campanella, di Stilo, diceva che la legge migliore è quella che uno ha dentro di sé, la legge MORALE. E vedi tu se devo scomodare un comunista e un ribelle per far capire, ad alcuni miei conterranei, che quello che continuano a scegliere è solo una mera, semplice e pura involuzione.