La guerra di Gaza e i suoi orrori

Il raid dell’esercito israeliano del 27 maggio che ha provocato a Rafah 45 morti e un numero alto di feriti, in grande parte bambini e donne, ha provocato il solito ribrezzo

StrettoWeb

Il raid dell’esercito israeliano del 27 maggio che ha provocato a Rafah 45 morti e un numero alto di feriti, in grande parte bambini e donne, ha provocato il solito ribrezzo. Netanyahu ha parlato di un tragico errore, ma questa cieca violenza indirizzata in forma indiscriminata contro la popolazione di Gaza, nella speranza, molto spesso vana, di colpire un terrorista appare al mondo intero inaccettabile. Scaturisce da quest’ultimo episodio di violenza la proposta di pace di Biden che, per la prima volta in tutti questi mesi, potrebbe contenere la speranza di essere discussa, emendata e alla fine accettata sia da Israele sia da Hamas.

Ma procediamo con ordine. Quello che è successo il 7 ottobre, è stato un crimine efferato che ha suscitato orrore: la testa di un bimbo preso a calci come fosse un pallone, un palo infilato nella vagina di una ragazza e altri episodi del genere. La reazione di Israele è stata terribile. Si parla di oltre 36 mila morti nella Striscia di Gaza. Anche qui immagini che a distanza di mesi si fa fatica a riportare alla luce senza riavvertire sofferenza. Una sofferenza che aumenta d’intensità quando si abbatte su una persona della mia generazione vissuta con le immagini della Shoah conficcate nella memoria. Se c’è un’operazione che in genere fa implodere alcune categorie della mente, è la trasformazione della vittima in carnefice.

Mi rendo conto che è necessario fare una certa distinzione fra l’attuale governo d’Israele e quel mondo di sopravvissuti che ricominciò nel 1948 in quel lembo di terra una nuova vita. Resta il fatto che oggi quel clima di solidarietà che nel dopoguerra si posava come un’aureola su ogni ebreo, vittima incolpevole non in quanto persona, ma in quanto popolo, tende, dopo i misfatti di Gaza, ormai a sfaldarsi.

Nell’immaginario del mondo lo Stato d’Israele non è più vissuto come il legittimo rifugio della diaspora. Mi domando a questo punto: siamo proprio certi che la reazione di Israele, rispetto alla violenza subìta, non potesse che essere questa? Specie se si considera che sono stati davvero pochi i capi d’Hamas uccisi o catturati in seguito ai bombardamenti. In memoria restano solo morti orribili nella Striscia, soprattutto, ripeto, di donne e bambini, che non solo non offrono alcun vantaggio alla politica di Israele, ma appaiono oltremodo controproducenti per tutti gli ebrei del mondo.

Non mi stupisce quello che ha recentemente affermato la presidente delle comunità ebraiche, Noemi Di Segni: “Noi ebrei siamo oggi isolati in patria. Nessun luogo è più sicuro per noi”. Sembra – Dio ce ne scampi – il preludio di quel clima del ’38, che di tanto in tanto affiora nei ricordi di Liliana Segre. Esiste purtroppo il rischio di un antisemitismo generalizzato destinato a riprendere dappertutto vigore. Il fenomeno, come si sa, è antichissimo. Non ha inizio con la morte di Gesù di Nazareth ma, come afferma Jessica Roitman, una stimata professoressa di studi ebraici, “fin dal tempo in cui Alessandro Magno dominava il Medio Oriente”.

Ritornando ai giorni nostri, l’elemento più inaccettabile di questi infernali otto mesi è rappresentato dal sospetto che la testarda volontà del premier israeliano nel continuare l’occupazione ad oltranza della Striscia dipenda da due fattori. Entrambi indecenti. Il primo. Alcuni ministri che fanno parte del governo di Netanyahu puntano a ricavare dal conflitto nuovi insediamenti sulle terre conquistate. Il secondo fattore è altrettanto inaccettabile nella sua semplicità: Netanyahu ha la certezza che, esauritasi l’azione bellica, finisca in galera per corruzione. Per lui una guerra che dovesse continuare fino al prossimo 5 novembre, giorno di una possibile elezione di Trump in America, è una provvidenza che scende dal cielo.

Bisogna infine convenire con rammarico che comunque si chiuda questo conflitto, la sanguinaria strategia di Hamas ha vinto. Oggi il mondo parteggia dappertutto per i palestinesi. Per quegli esseri affamati, racchiusi disperati nelle tende, privi di un minimo di tutela internazionale, affranti da una quotidianità disperata che uno scrittore di Gaza City, Akram al Sorani, ha efficacemente raccontato al mondo: “File di ottanta-cento persone per andare al bagno. Quindi facciamo quello che dobbiamo fare nel mare…Guardo mia moglie, il suo sguardo imbarazzato quando ha il ciclo…Guardo i vecchi con la diarrea che preferiscono farsela addosso piuttosto che uscire dalla tenda…”.

Concludo segnalando a tutti, sul tema, un libro appena uscito per Feltrinelli “Gaza”. E’ scritto da Gad Lerner, un ebreo onesto e di qualità che ho incontrato un paio di volte a Riace, nel paese di Mimmo Lucano. Ho incominciato a leggerlo e ne sono rimasto ammaliato fin dalle prime pagine per la nitidezza dell’analisi che rifugge dalla propria appartenenza. In un mondo in cui le fake news imperano, il libro indica un sentiero di verità.

Condividi