Esistono paure più o meno recondite e fobie stravaganti che interessano milioni di persone ogni giorno. Si va da quelle “classiche”, la paura dell’altezza o quella di volare, a quella di restare chiusi in spazi angusti e altri che aborrano l’idea di grandi luoghi aperti. Esistono pii quelle fobie sociali, che non ti permettono di relazionarti con il prossimo e quelle invece contrarie, dove la solitudine fa così paura che cerchiamo di attaccarci al primo che passa. Le paure possono essere “strane” ma, se accompagnate da una sana dose di razionalità, possono essere anche sconfitte. O, almeno, livellate.
L’ipocondria, ovvero stare male a prescindere
Tra queste, esiste anche la cosiddetta ipocondria, la paura delle malattie. Dal tardo latino hypochondria, che indicava un disturbo della fascia addominale, il termine si è poi esteso per andare a racchiudere tutti i soggetti che soffrono di questa condizione secondo cui, ogni piccolo remoto dolore significa morte certa.
Tra questi soggetti, purtroppo, rientro anche io. E quel purtroppo non lo scrivo per fare pena, quanto più per indicare una condizione dello stato psichico che, a lungo andare, diventa debilitante. La me ipocondriaca, anche nello scrivere questo articolo, sente che si sta tirando addosso una serie di sciagure patologiche che la porteranno, nel breve periodo, alla morte. Fa ridere, se letto da chi questa paura non ha. Fa piangere, invece, se a descriverla è una persona che, tre giorni su due, pensa che qualcosa non vada.
E lo penso anche in questo momento: in questo caso, la scrittura, più che esorcizzare la paura me la sta facendo venire. Il mio è il classico caso di chi “si tira la zappa sui piedi”: lo sto pensando, lo sto scrivendo, lo sto leggendo, pertanto deve essere vero o, nel breve periodo, lo diventerà.
La paura del medico
L’ipocondria difatti, prende una piega strana: c’è chi si porta dietro una farmacia nella speranza di poter fermare quel dolorino alla spalla, c’è chi ripete gli esami una volta ogni 15 giorni che potrebbe donarlo all’AVIS e c’è chi, come me, più ha paura di avere una malattia e più non vuole scoprirlo. Un meccanismo di pensiero che, a volte, mi fa venire voglia di uscire dal mio corpo, prendere la testa, tagliarla in due e vedere se qualcosa non funziona. Perché, porca miseria, se sei malata fatti curare!
E invece no. Se penso di essere malata, deve restare solo un pensiero. il giudizio di un medico, nel mio caso, vorrebbe solo dire accertare la mia malattia. E, in quella testa bacata che vorrei aprire in due come una mela per capirci qualcosa, l’incertezza mi dà sicurezza. Sono malata, ma se non me lo dice un medico allora potrei non esserlo veramente.
La cybercondria, quando la paura diventa digitale
L’ipocondria, negli ultimi anni, è cresciuta a dismisura grazie (al c****) di avvento di internet. E’, infatti, stato coniato un neologismo, la cybercondria, dove la paura delle malattia diventa “digitale”. Invece di ricevere una diagnosi da un medico, si preferisce scegliere quella di Google. Che poi, per una che ha la fobia delle malattie, ogni ricerca diventa un tunnel in cui si cade e senza uscita. Ci avete fatto caso, vero, che scrivendo i sintomi di un banale raffreddore, i risultati della ricerca vi danno già sul letto di morte?
Perché la tecnologia, furbetta, ci conosce molto più di quanto pensiamo. D’altronde, a svilupparla, sono stati degli umani. E’, infatti, accertato che i risultati debbano condurre allo scenario più tragico: solo in questo modo, gli stronzi fobici come me andranno a cliccare, leggere e scavare per cercare la diagnosi giusta. Mortale, ovviamente. Si crea, dunque, un circolo vizioso dove anche il più piccolo dei dolori diventa il sintomo principale di una terribile patologia.
Un loop infinito dove, se non siamo ammalati fisicamente, finiremo per esserlo mentalmente. Chiudete internet, dunque. Usatelo solo per cercare una ricetta, per tenervi informati, per un breve passatempo. La vita vera è fuori, i medici veri sono là. Chiediamo aiuto e non facciamoci abbindolare da questa smania di poter predire il futuro ed evitare il peggio: prevenire è meglio che curare, sì, senza però dimenticare di vivere un giorno alla volta, anche con qualche acciacco!