La ‘ndrangheta abita in casa mia: la Calabria omertosa figlia dell’abitudine

La 'ndrangheta, le ammazzatine, l'indifferenza: siamo così impregnati di mafia che puzziamo di morte e manco ce ne accorgiamo

StrettoWeb

Della mafia si parla tanto, troppo: la si mette in mezzo un po’ ovunque, quasi fosse una parola buttata lì, a caso, e che, in base alle circostanze, assume significati più o meno differenti. Il termine “mafia”, l’aggettivo “mafioso” si spogliano del valore originale e diventano intercambiabili. Tutti, nell’immaginario collettivo, possono essere mafiosi: dalla persona che non ha saputo parcheggiare, dal vicino molesto, dalla donna che ha messo le corna al marito, fino ad arrivare ai politici, i “mafiosi” per eccellenza.

La “spettacolo” della mafia

Ma la parola “mafia”, ormai usata con quotidiana cadenza, non può e non deve spogliarsi della sua accezione più terribile: quella di un sistema illegale, violento, terribile che accomuna tutto e tutti, da Nord a Sud, dall’Italia alla Colombia, dai piccoli agli anziani.

Eppure, a guardare le inchieste che passano in TV, la mafia si è trasformata in “intrattenimento”: il topic di una trasmissione lunga 2 ore, che guardiamo alla sera prima di andare a dormire, mentre si parla di ammazzatine e narcotraffico, magari con la tisana in mano.

E’ quanto accaduto ieri, dalla mia prospettiva di semplice spettatore rilassato sul divano, mentre in televisione passava l’inchiesta di Inside, “La ‘ndrangheta”, condotta dalla Iena Giulio Golia. A farmi paura, dopo oltre un’ora di puntata mentre cenavo, rassettavo la cucina, prendevo il cellulare per rispondere ad alcuni messaggi su WhatsApp, è stata l’improvvisa consapevolezza che stavano parlando della MIA regione, di paesi a ME familiari, di persone che condividevano la MIA stessa aria e terra, e la cosa, fino a quel momento, mi aveva provocato indifferenza.

Sì, un servizio interessante (perso un po’ nella lungaggine e nella “boria” di voler affrontare 12 argomenti diversi in una sola inchiesta) ma che, appunto, guardavo solo come spettatore, dimenticando completamente che quelle cose, quegli omicidi, quei rifiuti tossici, quei fiumi di droga, sono dentro CASA MIA.

La ‘ndrangheta sono io, io sono la ‘ndrangheta

No, non ho affiliazioni con gli ‘ndranghetisti, né parenti prossimi che bazzicano con i criminali. Eppure, mentre scorrono le immagini di Gioia Tauro, di San Luca, di Soriano Calabro, di Crotone, di Platì e di Africo, mi rendo conto che io, loro, noi tutti siamo parte del sistema.

Perché la ‘ndrangheta, per quanto ci possa fare schifo, è intrinseca nella nostra cultura, nell’educazione che riceviamo, nei posti in cui viviamo. Siamo così impregnati di mafia che puzziamo di morte e manco ce ne accorgiamo.

Da qui, dunque, nasce l’indifferenza. Sento parlare di ‘ndrangheta da quando sono nata, con la stessa semplicità con cui mi è stato insegnato ad allacciarmi le scarpe: loro sono i cattivi, eppure me li trovo come vicini di casa. Loro sono i criminali, eppure ci spartiamo lo stesso pezzo di terra. Sono così presenti, così radicati, che si sono confusi tra la famosa “gente perbene” e non li distinguiamo neanche più.

Nessuna distinzione, nessun interessamento: perché dovremmo interessarci a qualcosa che appare – ma non è – normale? Per questo le ammazzatine non ci fanno più paura; per questo sentire di Maria Chindamo che viene data in pasto ai maiali non ci tocca; ecco perché l’omicidio di Filippo Ceravolo, estraneo alla ndrangheta vibonese, freddato a colpi di pistola a soli 19 anni, non ci dispiace più di tanto; un altro buono perso tra i cattivi, la normalità in questa Calabria maledetta.

Siamo tutti mafiosi

Perché noi, la ‘ndrangheta, la viviamo, la giustifichiamo, l’accettiamo tanto da diventare un popolo di omertosi inconsapevoli. Perché la ‘ndrangheta, tra pentiti, collaboratori di giustizia, imprenditori coraggiosi e morti innocenti, noi l’abbiamo normalizzata: con le mogli che, custodi di segreti mafiosi, difendono mariti, fratelli e figli al 41bis. Con le 90enni che dicono che la “non esiste”.

La ‘ndrangheta sono i ragazzini che, a 11 anni, imbracciano il fucile e imparano a sparare per essere come i loro “papà”. Sono i 20enni che abbassano la testa quando il giornalista si avvicina per chiedere cosa ne pensano. Siamo tutti testimoni, tutti colpevoli, tutti mafiosi. Perché l’omertà di noi calabresi è, purtroppo, il frutto di una aberrante e tragica abitudine.

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