Se i ladri ci entrano in casa dobbiamo arrenderci: “fate pure”. Oppure facciamo la rivoluzione contro questa giustizia malata

Il caso del povero Francesco Putortì, macellaio di 48 anni che lunedì ha subito una rapina nella sua casa di Oliveto (Reggio Calabria) e adesso è in carcere per essersi difeso dai ladri che lo hanno anche aggredito. I magistrati gli hanno chiesto: "perchè non sei scappato?"

StrettoWeb

L’ordinanza di convalida del fermo di Francesco Putortì supera i confini dell’immaginazione. E invece è realtà. E succede a Reggio Calabria, il 31 maggio 2024. Anche nella peggiore dittatura giudiziaria questo episodio farebbe scandalo. E infatti sta montando la rabbia in città, e non solo. I reggini stanno organizzando un sit-in spontaneo in Procura per lunedì mattina, mentre tutti i principali programmi televisivi si stanno organizzando per arrivare in riva allo Stretto a raccontare quello che è già diventato il caso di mala giustizia più clamoroso degli ultimi anni.

Tutto è successo in pochi minuti, la mattina di lunedì 27 maggio intorno alle 9:45, quando Francesco Putortì, 48 anni da compiere a ottobre, è rientrato nella sua abitazione di Oliveto, sulle colline della periferia sud di Reggio Calabria, e ha sorpreso due ladri intenti a rubare soldi, gioielli e persino le armi che – da appassionato cacciatore – deteneva regolarmente e custodiva in un’apposita cassaforte.

I fatti di lunedì mattina

Putortì si accorge dei ladri, prende il primo coltello da cucina che trova per difendersi nell’eventualità in cui i malviventi potessero fargli del male, e quando li affronta per chiedergli cosa stessero facendo, questi – che erano in due – lo aggrediscono saltandogli addosso. Lui inizia ad agitare la mano con il coltello con l’unico scopo di salvarsi la vita, e riesce a mettere in fuga i criminali. A debita distanza, li segue per pochi metri per accertarsi che siano andati via e poi rientra in casa nel timore che ci sia qualche altro. Inizia a gridare, ma per fortuna non c’è più nessuno. In quel momento si accorge che il coltello ha una piccola macchia di sangue, e pensa di aver graffiato i malviventi. A quel punto chiama il 112 e denuncia la rapina. Quando arrivano i Carabinieri racconta il fatto, omettendo in un primo momento di aver utilizzato il coltello (che intanto aveva pulito nel lavandino). “Mi sono difeso dandogli un pugno”, ha detto la prima volta. Poi però è stato interrogato nuovamente, e ha raccontato tutta la verità spiegando che aveva paura di subire conseguenze giudiziarie se avesse raccontato del coltello. Tra la prima piccola omissione e la verità passano soltanto poche ore e la spiegazione dell’omissione è più che ragionevole per un padre di famiglia che si è trovato per la prima volta nella vita in una situazione più grande di lui. Le tracce ematiche sul coltello erano comunque davvero minuscole, e nulla poteva far pensare a ferite mortali. Che infatti sono tutte da dimostrare.

I ladri erano in tre, tutti provenienti da Catania da dov’erano partiti la mattina presto e avevano traghettato sullo Stretto arrivando a Villa San Giovanni intorno alle 08:30. Qui si erano fermati a fare colazione al bar. Il più giovane si chiamava Alfio Stancampiano, 30 anni, gli altri due erano Giovanni Bruno, 46 anni e Massimo La Spina, 54 anni, quest’ultimo sempre alla guida della Fiat Punto di colore bianco (non ha fatto irruzione nell’abitazione di Putortì, dove sono entrati gli altri due). Tutti e tre avevano numerosi precedenti penali per furti, rapine, droga e altri reati. La Spina, il più grande della banda nonché autista dell’automobile, è addirittura senza patente da anni in quanto gli è stata ritirata durante il lockdown. L’auto che guidava era stata noleggiata da sua moglie più di un mese fa a Catania, pagando il noleggio cedendo una fornitura di mattonelle per pavimentazione come prezzo al titolare della ditta di autonoleggio. Massimo La Spina adesso è a piede libero, a casa sua, con i suoi cari. Alfio Stancampiano, invece, è morto e Giovanni Bruno è ricoverato a Messina dove ha subito un delicato intervento chirurgico. Ma cos’ha provocato queste gravi conseguenze fisiche è ancora tutto da chiarire. Così come è da chiarire come mai siano partiti da Catania per andare proprio in quell’abitazione in quella frazione di Reggio Calabria per compiere un furto abbastanza modesto: forse il vero obiettivo erano le armi? E come facevano a sapere che erano lì? Chi glielo aveva detto, dal territorio reggino? Auspicabilmente lo chiarirà l’inchiesta, soltanto appena iniziata.

La ricostruzione delle telecamere di videosorveglianza

Le forze dell’ordine hanno ricostruito in modo molto meticoloso, grazie alle telecamere di videosorveglianza e alle testimonianze di alcuni cittadini, quello che è successo trovando totale riscontro con la versione di Francesco Putortì, la vittima della rapina e dell’aggressione, un onesto lavoratore con la fedina penale pulita. Al contrario la versione di Massimo La Spina fa acqua da tutte le parti (è riuscito a dire addirittura che non aveva mai visto prima in vita sua gli altri componenti della banda, si è giustificando dicendo che stava andando in auto a Catanzaro ma ha sbagliato strada e i due ladri concittadini lo avrebbero fermato allo svincolo reggino di San Gregorio irrompendo in auto e costringendolo ad aiutarli! Non ci crederebbe neanche un bambino). Le telecamere, invece, mostrano chiaramente l’automobile che sale verso Oliveto transitando da Croce Valanidi alle 09:26 e poi scende alle 09:48. Tutto accade in quei venti minuti. Ma c’è un’altra telecamera che fa ulteriore chiarezza, ed è quella del vicino di casa di Putortì: mostra chiaramente come alle 09:45 il proprietario di casa rientra e alle 09:47 i due ladri (Stancampiano e Bruno) scappano a piedi, correndo per 800 metri fino al punto in cui li aspettava il complice (La Spina) con la Fiat Punto.

Poi alle 09:55 i tre a bordo dell’auto arrivano alla rotonda dello svincolo di San Gregorio dove si fermano per qualche secondo accanto all’ingresso del supermercato, forse perchè provano a curare le ferite, o litigano per dividere il bottino, o perchè forse non sanno dove andare, fatto sta che ripartono sgommando e alle 10:01 arrivano all’Ospedale Morelli, che non è dotato di pronto soccorso (sarebbe stato molto più veloce arrivare al pronto soccorso dei Riuniti, l’unico della città, posto proprio accanto allo svincolo autostradale).

Le telecamere dell’ospedale mostrano i tre che chiedono aiuto, cercano medici e infermieri, entrando casualmente nel reparto di radiologia, ma non c’è nessuno che può aiutarli. Si vedono tutti e tre scendere dall’auto a piedi e camminare con i loro piedi. Uno di loro ha qualcosa in mano e alle 10:06 la abbandona dentro un carrello di trasporto di biancheria ospedaliera pieno, all’esterno della struttura (vedi frammento dalle telecamere di videosorveglianza, in alto a corredo dell’articolo), e dopo pochi secondi escono dall’Ospedale in auto dirigendosi verso Villa San Giovanni. Alfio Stancampiano viene ritrovato riverso a terra nel parcheggio poco più tardi: la Polizia annota la prima richiesta di soccorso alle 10:22 mentre i soccorritori sul posto ne certificano il decesso alle 10:25. Giovanni Bruno prenderà il traghetto da pedone, ferito, e si farà ricoverare in ospedale una volta arrivato a Messina, mentre La Spina viene fermato in auto dalla Stradale mentre è agli imbarchi per i traghetti.

Cos’è successo nei 39 minuti che separano la colluttazione con la morte del ladro?

Tra la colluttazione con Putortì nella sua abitazione di Oliveto e il momento del decesso di Stancampiano c’è un lasso di tempo di ben 39 minuti. Trentanove minuti in cui il ladro ha camminato, addirittura ha corso per 800 metri: come si può dare per certo che sia morto a causa delle ferite cagionate da Putortì? Se i ladri lo avessero immediatamente portato al pronto soccorso dei Riuniti, che dista meno di 15 minuti di auto dal luogo della rapina, sarebbe sopravvissuto? E c’è qualche operazione che la banda ha compiuto in quei 39 minuti e che ha determinato la morte di Stancampiano, o comunque compromesso le sue condizioni aggravando le ferite rimediate nella colluttazione con il proprietario dell’abitazione che stava rapinando? A queste domande non c’è ancora alcuna risposta.

Chi è Francesco Putortì: una persona perbene

I tre ladri avevano sottratto dall’abitazione gioielli, monili preziosi, 1500 euro in contanti avuti in regalo per la festa di 18 anni del figlio appena compiuti e anche alcune armi (che Putortì deteneva regolarmente), che però gli erano cadute durante la fuga dall’abitazione. Francesco Putortì è una brava persona. Fa il macellaio in un noto supermercato della città, è molto conosciuto e stimato per la sua mitezza d’animo e per la sua bontà. Si è trasferito a Oliveto con la moglie e il figlio da sei anni, ha un mutuo per la casa e non ha mai avuto problemi con nessuno. E’ totalmente incensurato: non ha mai avuto alcun tipo di problema con la giustizia, neanche banale, alcuna segnalazione in 48 anni di vita in città. E’ nato e cresciuto ad Arangea, adesso si è trasferito a Oliveto con la famiglia. Gli amici lo chiamano “bue“, proprio perchè è considerato eccessivamente mansueto: i buoi, infatti, sono noti per avere gli occhi grandi, il corpo imponente e per non riuscire a fare del male a nessuno. Putortì è uno sportivo, tanto che il suo avvocato è l’amico Maurizio Condipodero, non a caso Presidente Regionale del CONI della Calabria, che lo sta difendendo gratuitamente in quanto lo conosce bene, avendolo cresciuto da allenatore. L’avvocato Condipodero, che rappresenta un’importante istituzione e ha un ruolo di primo piano nel Foro di Reggio Calabria, arriva dalla più antica e nobile scuola della giurisprudenza per cui non ha mai amato i riflettori della ribalta eppure in queste ore è inseguito dai principali media nazionali perchè questa vicenda sta facendo grandissimo scalpore. E’ lui stesso, prima di tutto dal punto di vista umano e poi sotto il profilo giudiziario, a non darsi pace per l’esito della convalida del fermo in cui il Gip ha sposato in pieno la tesi accusatoria della Procura, confermando l’arresto in carcere di Putortì perchè potrebbe “occultare le prove“, “fuggire” o addirittura “reiterare il reato“.

La visione dei magistrati: Putortì sarebbe dovuto scappare, e gli aggressori diventano “vittime”

Quello che si legge nell’ordinanza è davvero raccapricciante. Secondo i magistrati, Putortì si sarebbe dovuto arrendere ai ladri, avrebbe dovuto dirgli “fate pure“. E’ così che la giustizia difende i cittadini onesti e per bene dai criminali? Questa sconcertante verità emerge già dal primo interrogatorio in cui il Pm gli chiede testualmente:

Perché ha preso il coltello e non ha chiamato i soccorsi?

E Putortì risponde: “ho preso il coltello per eventuale difesa, non sapevo se queste persone fossero armate“.

Il Pm insiste: “Perché non si è nascosto in una delle camere che c’erano sotto e non ha chiamato i soccorsi?

In sostanza secondo il Pm Putortì avrebbe fatto meglio a nascondersi anziché a difendersi. E’ poi lo stesso interrogatorio a spiegare perchè – comprensibilmente – in quei momenti concitati Putortì non abbia immediatamente potuto chiamare i soccorsi. Innanzitutto il Pm chiede: “Lei aveva il telefono con sé?” e Putortì risponde “no, ce l’avevo sotto“. Poi il Pm chiede se “dopo i fatti ha chiamato il 112?” e Putortì dice “sì, l’operatore mi ha passato i Carabinieri e dopo una mezzoretta sono arrivati sul posto“. E’ normale che i Carabinieri impieghino una mezzoretta ad arrivare a Oliveto: come avrebbe mai potuto pensare di salvarsi chiamando soccorsi a così grande distanza, per giunta senza neanche avere un telefono a disposizione, il povero Putortì?

Ma se ciò che Putortì avrebbe dovuto fare per evitare l’arresto è solo ipotizzabile dalle domande del Pm durante l’interrogatorio, diventa poi molto più esplicito nelle richieste dello stesso Pm confermate in toto dal Gip. In conclusione, infatti, per motivare la conferma dell’arresto in carcere, l’ordinanza recita una narrazione completamente capovolta rispetto ai fatti accaduti. I ladri e aggressori sono menzionati come “le vittime” – con riferimento alle ferite riportate – pur accertando che erano gli autori di una rapina in un’abitazione altrui:

entrambe le vittime

Ma possono essere mai considerati ufficialmente “vittime” dalla Giustizia di Stato due criminali pluripregiudicati che hanno fatto irruzione in un appartamento altrui per rubare beni altrui?

L’ordinanza prosegue descrivendo meticolosamente quanto accaduto tra le 09:45 e le 09:47, dimostrando dettagliatamente la bontà dell’operato di Putortì e la pericolosità dei due criminali catanesi:

“Non può essere legittima difesa”: le conclusioni dei magistrati

Quello che fa più scalpore è ciò che si legge nelle ultime pagine dell’ordinanza. Il Gip scrive che “non sussistono dubbi circa la corretta qualificazione giuridica dei fatti operata dal Pm, non scriminati dalla giustificazione della legittima difesa che, nel caso di specie, non appare sussistere nemmeno nella forma putativa“.

Il Gip cita una recente sentenza della corte di Cassazione secondo cui “alla finalità difensiva deve necessariamente corrispondere, sul piano oggettivo, il pericolo di un’offesa ingiusta, non altrimenti neutralizzabile se non con la condotta difensiva effettivamente attuata“. Di fatto, secondo l’interpretazione del Gip, Putortì avrebbe reagito in modo spropositato: si sarebbe prima dovuto accertare se i ladri lo avrebbero potuto colpire, con quale gravità, e poi reagire di conseguenza (magari dopo che era già morto!). Tutto questo in pochi secondi mentre sei sconvolto perchè ti sei appena accorto che ci sono i ladri dentro casa!

L’ordinanza prosegue citando la sentenza che chiarirebbe come la sola intrusione dei ladri in casa non consentirebbe alla vittima del furto di “reagire in modo indiscriminato“, circostanza che invece “presuppone un attacco alla propria o altrui incolumità, o quanto meno un pericolo di aggressione“. Ed è questo il punto nevralgico della legittima difesa. Putortì non solo era derubato, ma è stato anche aggredito, e soltanto dopo l’aggressione si è difeso per evitare di essere ucciso.

Il Gip, invece, scrive che “a fronte della violazione di domicilio da parte dei due malviventi e la presenza legittima di Putortì nei luoghi di illecita intrusione, nel caso di specie difettino la necessità dell’offesa arrecata e l’inevitabilità del pericolo“. Eppure Putortì non ha mai offeso: si è solo difeso. Il Gip, invece, lo accusa di aver reagito in modo spropositato perchè voleva difendere i suoi beni, addirittura è accusato di aver fatto rumore facendosi sentire dai ladri (!!!), quando i malviventi non stavano compromettendo la sua incolumità fisica in quanto erano ignari dell’arrivo del proprietario (poveri cuori di mamma, ndr).

In sostanza, se dovessero entrarci i ladri in casa, dovremmo nasconderci, scappare, e dovremmo anche farlo piano piano per non disturbarli affinché non se ne accorgano. “Ohibò, torno a casa e ci sono i ladri. Tolgo il disturbo, fate pure, prendete tutto che io torno dopo. Buon lavoro e scusate se vi ho disturbato“. Stiamo forse esagerando con l’ironia? Se lo pensate, riportiamo di seguito lo stralcio dell’ordinanza in cui il Gip stigmatizza come Putortì volesse difendere la sua casa e di come si sentisse violato e violentato, accusandolo di “aver preferito farsi giustizia da sé, armandosi con un’arma micidiale e usandola fendendo contro di loro numerosi colpi in parti vitali“. Eppure le indagini degli inquirenti ribaltano totalmente questa narrazione: Putortì ha utilizzato un banale coltello da cucina presente in tutte le abitazioni, altro che “arma micidiale”; non ha mai voluto farsi giustizia ma si è solo difeso dall’aggressione, infatti non ha inseguito i ladri né li ha mai attaccati alle spalle o di sorpresa e lo conferma la circostanza che abbia fatto rumore per farsi sentire con l’unica intenzione di spaventarli e farli fuggire; infine non ha inferto “numerosi colpi” ma ne risultano due a Stancampiano e tre a Bruno, rimediati casualmente durante una colluttazione che si è verificata in pochi secondi in un locale minuscolo, e non certo in modo volontario (altrimenti i due, descritti dal Gip come se fossero stati trucidati e dilaniati, non avrebbero potuto correre per 800 metri fino all’automobile del complice-autista senza patente!). A proposito, e se fosse stata quella corsa a compromettere una ferita originariamente banale, cagionando poi la morte? In quel caso per Putortì non si potrebbe certo profilare l’omicidio. Anzi. Stancampiano sarebbe morto proprio perchè stava scappando. Quindi perchè era un ladro. Per questo motivo la difesa di Putortì ha chiesto l’autopsia per fare chiarezza sulle cause del decesso (avete mai visto un pluriomicida che chiede l’autopsia delle sue vittime?).

L’inaccettabile descrizione di Putortì come un serial killer: “può reiterare il reato”

Il Gip evidenzia ulteriori elementi secondo cui “si deve escludere la legittima difesa” e poi il finale è da brividi. Putortì viene accusato addirittura di omicidio e tentato omicidiodeve rimanere in carcere perchè ci sarebbe “fondato pericolo di fuga” (!!!) in quanto Putortìpuò adottare comportamenti tesi a sottrarlo alle sue responsabilità facendo perdere le sue tracce“. Così aveva chiesto il Pm e così il Gip ha confermato, ignorando l’arringa degli avvocati difensori che invece spiegavano quanto semplice fosse la vita di Putortì che mai e poi mai si renderebbe latitante come uno ‘ndranghetista (come conferma la sua fedina penale).

Ancor più grave quanto segue rispetto al rischio di reiterazione del reato. Appare chiaro a tutti il quadro in cui l’eventuale reato si è verificato, e cioè quello di una rapina in casa. Un’eventualità che non capita certo tutti i giorni. Ebbene, il Gip ha avuto il coraggio di scrivere – riportando in toto le richieste del Pm – addirittura che “sussiste il concreto e attuale pericolo che l’indagato commetta altri gravi delitti della stessa specie, considerate modalità e circostanze della condotta criminosa, che manifestano una scaltrezza ed una facilità nell’agire illecito che promettono il ripetersi di analoghi comportamenti. Al riguardo deve sottolinearsi l’assoluta e gravissima noncuranza di Putortì a porre in pericolo l’incolumità e l’integrità fisica di terzi (i ladri, ndr), che egli comprometteva anche irrimediabilmente al solo scopo di difendere la sua proprietà (quisquilie, ndr). Tanto a dimostrare una pericolosità sociale di certo rilievi dell’indagato, che rende attuale e assai concreto il rischio di reiterazione del reato. Del resto, proprio Putortì, dimentico degli effetti cagionati alle vittime, in udienza di convalida ripeteva di aver agito per difendere la sua casa, perchè si era sentito violato nella sua proprietà, e tanto basta a dimostrare una personalità incline alla reazione trasmodante che si appalesa capace di ripetersi e desta allarme sociale. Quanto detto acclara, pertanto, il pericolo che l’uomo – se rimesso in libertà – possa commettere ulteriori delitti della stessa specie“.

Putortì viene descritto come un serial killer soltanto perchè ha una personalità incline a difendere la propria proprietà! Ma allora siamo tutti potenziali serial killer, noi che la propria proprietà la consideriamo sacra in coerenza con la nostra Costituzione, che pretende come sia “riconosciuta e garantita dalla legge“. Anche perchè se così non fosse, quello di ladro diventerebbe il lavoro più ambito del nostro Paese.

E invece – cari magistrati che state incarcerando ingiustamente Putortì – il ladro deve essere consapevole che nell’istante in cui sta invadendo la proprietà altrui, sta mettendo a rischio la propria incolumità. Questo non significa il far west, ma le forze dell’ordine non potranno mai essere sempre ovunque e decine di famiglie innocenti sono morte sterminate perchè polizia e carabinieri non potevano semplicemente fare in tempo ad arrivare. Nessuno deve pensare di potersi fare giustizia da sé; ma difendersi lecitamente sì. Il concetto di “farsi giustizia” è diametralmente opposto a quello di legittima difesa: “farsi giustizia” significa vendicarsi di un torto subito, e quello non è consentito a nessuno perchè in un Paese civile è appunto lo Stato a fare giustizia. Difendersi lecitamente, invece, significa tutelarsi dai malviventi, respingere intrusi dalla propria proprietà e questo non sempre può farlo lo Stato. Laddove non è possibile, ben venga se riesce a farlo un cittadino evitando di essere ucciso, di perdere un familiare o i propri beni e le proprie proprietà.

Chi viola la proprietà privata è colpevole a prescindere

Non si può considerare mai “vittima” il ladro, anche se poi ci rimette le penne. Nessuno lo aveva costretto a commettere un crimine. Delinquente e onesto non potranno mai essere alla pari, non lo sono neanche per la Costituzione. Non lo sono neanche per l’unanimità delle civiltà occidentali che da anni si impegnano nella guerra in Ucraina “perchè c’è un aggressore e un aggredito“, giustificando ampiamente le reazioni dell’aggredito come “legittime” persino quando travalicano nel territorio altrui (quindi come se Putortì avesse contrattaccato a casa dei ladri). Ecco, se le più grandi civiltà liberali, le principali democrazie mondiali come Stati Uniti, Regno Unito, Francia e Germania, stanno fornendo all’Ucraina persino armi volte a contrattaccare in Russia con l’unico scopo di porre fine all’aggressione di Putin scoraggiandolo dal proseguire, è possibile che in Italia i cittadini non possono difendere la loro proprietà neanche a casa propria? Davvero la nostra Giustizia vuole favorire i criminali, o al contrario in base ad una Giustizia giusta oggi l’unico in carcere dovrebbe essere il complice dei ladri e l’altro ferito dovrebbe raggiungerlo non appena uscirà dall’ospedale, anziché il povero Putortì?

Chi viola la proprietà privata è e sarà sempre dalla parte del torto. A prescindere dalla reazione e da come andrà a finire. Non tutti hanno la capacità e la prontezza di reagire come ha fatto Putortì, ma quando accade che qualcuno riesce a difendersi bisognerebbe dargli una medaglia non certo creargli ulteriori problemi oltre al trauma vissuto. Ma alla famiglia di Putortì vogliamo dire che è comunque meglio dover affrontare le controversie di una Giustizia che non funziona, anziché finire ammazzati dai criminali. Fatevi forza, poteva andare molto peggio. E questo incubo finirà. Intanto a Oliveto la solidarietà è già partita con una raccolta fondi per sostenere le spese della famiglia in una situazione che si prospetta molto difficile.

A prescindere da ogni considerazione nel merito della vicenda di Putortì, che sicuramente avrà giustizia già la prossima settimana dal Tribunale della Libertà e potrà tornare ad abbracciare sua moglie e suo figlio, è necessaria una riflessione più ampia.

Ma davvero la Giustizia “riconosce e garantisce la proprietà privata“, come impone la Costituzione, se poi sbatte in galera un cittadino esemplare che per difendere se stesso da un’aggressione e quella sua proprietà, ha involontariamente provocato il ferimento di due ladri? Nell’ordinanza del Gip la proprietà privata viene ridicolizzata: il messaggio è “se i ladri entrano in casa vostra, scappate e non disturbateli“. Non può funzionare così.

La riforma della giustizia e la visione di Giorgia Meloni totalmente sovrapponibile al caso di Reggio

In quest’ordinanza su un grave episodio accaduto proprio a Reggio Calabria, leggiamo in modo pratico e concreto tutto ciò a cui si rivolgeva il Presidente del Consiglio Giorgia Meloni quando – lo scorso anno – pubblicava il suo libro “La versione di Giorgia” con il giornalista Alessandro Sallusti, direttore responsabile del Giornale. Nel capitolo in cui spiegava la sua idea sulla Giustizia da riformare, il premier Meloni spiegava la propria – appunto – visione nel dialogo con il giornalista: “una parte della magistratura per estrazione culturale non è particolarmente sensibile al tema della proprietà privata, che considera in molti casi una sorta di lusso, che come tale non ha bisogno di particolari tutele. Nel corso di questa chiacchierata mi hai citato una intercettazione in cui un magistrato dice: «Noi non applichiamo la legge, noi stiamo dalla parte del più debole». Ecco, anche io sto dalla parte del più debole, ma non per questo penso di poter mettere i piedi in testa al meno debole, se persona onesta, perché le leggi, in uno Stato di diritto, dovrebbero valere anche per lui. Quelli politicamente corretti li chiamano «errori giudiziari». Io sarei più diretta: «abusi giudiziari», o se vuoi «incompetenze giudiziarie». Spesso riguardano esponenti politici – e già questa è un’anomalia – o comunque personaggi noti. Ma, nel silenzio generale, il più delle volte hanno come vittime persone qualunque a cui viene tolta ingiustamente e violentemente la vita anche se restano biologicamente vivi. Ne ho lette e sapute a decine di queste storie. Come è possibile che accada? Ma soprattutto come è possibile che nessuno ne risponda personalmente, come succede per chi sbaglia grossolanamente in qualsiasi altra professione? Io mi sto sforzando di introdurre il concetto di merito, e la responsabilità per le proprie azioni è l’altra faccia della stessa medaglia. Intendo dire: perché i magistrati fanno carriera e hanno avanzamenti economici automatici, salvo rarissimi casi limite, per semplice anzianità a prescindere da come si sono comportati, dai risultati ottenuti o dagli errori fatti? Per me è un mistero, e penso che dovremmo metterci mano. Non ho alcuna intenzione di dichiarare guerra alla magistratura, che è uno dei pilastri della democrazia. Io voglio dichiarare guerra all’ingiustizia, non alla giustizia. Me lo impongono la mia coscienza e il mio ruolo. E sono sicura di avere al mio fianco, in questa battaglia, la stragrande maggioranza dei magistrati italiani che, spesso, sono le prime vittime di quelle logiche di potere che hanno anteposto l’affiliazione al merito. Tra i tanti c’è un caso di malagiustizia che mi ha particolarmente colpito, ti dirò angosciato. Lo ha raccontato il tuo collega Giulio Goria in TV a Le Iene. È quello di un signore, si chiama Saverio, condannato per il più infamante tra i reati: violenza sessuale sui suoi due bambini. Lui si è sempre proclamato innocente ma viene condannato in via definitiva e finisce in carcere. Dopo una battaglia giudiziaria lunga più di quindici anni il caso viene riaperto, si scopre che non era vero nulla, revoca della sentenza e libertà. Solo che ormai la sua vita è rovinata. Ecco, vorrei arrivare a fare sì che cose come questa non possano più accadere. Il metodo? Semplicemente quello più autenticamente liberale: più garanzie a indagati e imputati nell’esercizio dei sacrosanti diritti di difesa, senza privare la magistratura di importanti strumenti investigativi per l’accertamento dei reati. E dall’altra parte più giustizialismo nei confronti del condannato con sentenza passata in giudicato. Cioè ti do il massimo delle garanzie nella fase del processo, ma quando vieni condannato la pena la sconti. Abbiamo la giustizia più lenta d’Europa. Abbiamo un tasso eccessivamente alto, rispetto alla media, di processi che si concludono nel nulla. C’è un eccesso di uso della carcerazione preventiva. C’è, come hai appena detto tu, un numero preoccupante di errori giudiziari riconosciuti dalla stessa magistratura e neppure sanzionati. Abbiamo un problema di tutela mediatica di cittadini coinvolti direttamente o indirettamente in inchieste ancora prima che inizi il processo o che vengono esposti al pubblico ludibrio pur non essendo coinvolti in nulla. Siccome abbiamo tutti questi problemi, e lo sappiamo tutti, il governo ha già cominciato a dare una risposta con la prima parte della riforma della giustizia. Una riforma in senso decisamente più liberale, contrastando la spettacolarizzazione mediatica dei processi, intervenendo a tutela della riservatezza del cittadino nel contesto delle intercettazioni, offrendo più garanzie agli italiani nella fase delle misure cautelari, pur senza privare la magistratura di strumenti di indagine. Poi ci concentreremo sulla lentezza della giustizia civile: riti più snelli, ampio ricorso alla digitalizzazione, assunzioni e snellimento dei concorsi da magistrato. La giustizia civile deve tornare a essere un volano e non una zavorra per l’economia italiana. Poi, però, non possiamo nasconderci dietro a un dito: le migliori riforme devono comunque camminare sulle gambe delle persone. Quindi, per rispondere alla tua domanda, penso che, insieme e non contro i magistrati, ci si debba sedere attorno a un tavolo e, al di là degli interventi legislativi a valle, risolvere la questione a monte: senza una riforma del CSM, liberandolo una volta per tutte dal giogo delle correnti politicizzate che poi si traduce banalmente nello scambio di favori, possiamo scordarci di venirne a capo in modo strutturale e definitivo”.

Il governo ha approvato in Cdm la riforma della giustizia proprio pochi giorni fa. I magistrati di sinistra (Anm) sono insorti, le opposizioni in parlamento (Pd e M5S) pure. Se la approveranno le Camere, probabilmente ci sarà il referendum. Eppure molti avvocati storicamente di sinistra, sostengono pienamente i contenuti della riforma. La considerano l’unica strada per eliminare la mala giustizia. Dopotutto l’ha coordinata un Ministro che è un magistrato, e che magistrato, tale Carlo Nordio: non può essere per definizione contro i magistrati, ma solo contro la deriva del “sistema” attuata da quelli ideologizzati. E’ la rivoluzione del bene, ed è l’unica cosa che possiamo sostenere se non vogliamo davvero doverci nascondere dai ladri che ci irrompono in casa. Da Reggio Calabria il monito per l’Italia intera: che Paese vogliamo? Quello in cui lo Stato tuteli i ladri o le persone oneste come Francesco Putortì?

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