Sicilia, la non-notizia del “giacimento d’acqua” ragusano

Non è necessario scendere a km di profondità per risolvere il problema della siccità in Sicilia

StrettoWeb

La notizia è di quelle che “fanno il botto”, accendendo le speranze della gente: il sottosuolo di Ragusa nasconde un enorme giacimento d’acqua che “può salvare la Sicilia dalla siccità” come riferisce il TGR Rai. Un salvataggio che arriva, nientemeno, “dalla preistoria” come precisa un sito di informazione on line.

Una scoperta che, quindi, dovrebbe far dormire sonni tranquilli agli assetati cittadini siciliani ed ai loro amministratori, evitando, peraltro, che i turisti si tengano ben lontani dall’isola: proprio gli stessi organi di informazione che oggi esultano per la inattesa risorsa sotterranea la rappresentano, ormai da mesi, come una landa arroventata dal sole.

In realtà, si tratta di una non-notizia, peraltro vecchia, dato che se ne è parlato diffusamente nei primi giorni del dicembre 2023, con tanto di lancio ANSA. Ovvio che venga ripresa oggi, in piena crisi idrica e nel bel mezzo dell’estate.

Dal punto di vista tecnico (ma anche logico), vengono in mente almeno tre motivi per i quali, di fronte al sensazionalismo che ha circondato il giacimento ragusano, ci sarebbe da farsi grasse risate, se non fosse per la serietà del problema e per la cautela che andrebbe adottata prima di diffondere certe “notizie”. Magari interpellando un esperto come ce ne sono tanti nelle università siciliane, anche se basterebbe, in questo caso, uno studente di ingegneria idraulica al primo anno.

L’esistenza di “giacimenti d’acqua fossile” nel sottosuolo è tutt’altro che una sensazionale scoperta

In primis, l’esistenza di “giacimenti d’acqua fossile” nel sottosuolo è tutt’altro che una sensazionale scoperta: ce ne sono in tutto il mondo, a tutte le latitudini e longitudini. Chi vuole, può tranquillamente eseguire una ricerca on line, e trovare, ad esempio nel sito specializzato Geopop, ampie ed esaustive informazioni sui giacimenti di questo tipo: quelli situati in Africa sono talmente ampi da superare 20 volte il volume di acqua dolce contenuto nei laghi del continente nero. La Sicilia non fa, ovviamente, eccezione, ed è certo che, oltre al “giacimento” ragusano, ce ne sono tanti altri a diverse profondità nel sottosuolo. Persino più raggiungibili rispetto ai 700 – 2500 metri di cui si è parlato a proposito dell’acqua del sottosuolo ibleo.

La seconda motivazione (a cui accenna lo stesso Geopop) è data dalla sfruttabilità di queste risorse. E’ legittimo che il giornalista-sensazionalista non si chieda quanta energia sia necessaria per sollevare un litro d’acqua dalla sua collocazione sotterranea fino alla superficie. Cosa che, invece, il tecnologo fa regolarmente: infatti, per utilizzare le risorse non basta scoprire dove si trovano, occorre anche chiedersi quanto costa renderle disponibili alla collettività. Sappiamo, ad esempio, che il nucleo di Giove è ricchissimo di diamanti, ma non ci risulta che sia mai stata neanche ipotizzata una missione per recuperarli e portarli sulla Terra; indovinate perchè.

Fantascienza a parte, quando parliamo di profondità minime di 700 metri, dobbiamo anche valutare i costi, anche ambientali, per il pompaggio della risorsa in superficie, e se, semplicemente, l’operazione è sostenibile. Basterebbe considerare l’esempio africano, dove l’acqua fossile di cui sopra rimane tranquillamente dov’è (ma vale la stessa cosa per la penisola arabica, l’Australia o qualsiasi altra area desertica del globo) per comprendere che già qualcuno, ed in condizioni di emergenza peggiori, ha scartato la possibilità di sfruttare questo tipo di “risorsa”. Strano che in un’epoca in cui non si fa altro che parlare di sostenibilità, nessuno, tra gli entusiasti commentatori di casa nostra, ci abbia pensato.

Infine, va considerato un altro e terzo aspetto non trascurabile: la composizione chimica della risorsa idrica nascosta nel sottosuolo. E’ infatti praticamente impossibile immettere in rete l’acqua proveniente da qualsiasi sorgente o invaso senza un trattamento, anche minimo, che la renda utilizzabile, ad uso irriguo ed ancor più ad uso potabile. Figuriamoci quando l’acqua si trova nel sottosuolo profondo, dove, magari, è arrivata attraversando numerosi strati ricchi di minerali di ogni tipo, impregnandosi degli elementi chimici in essi contenuti. D’altronde, una famosa pubblicità diceva che l’acqua, se è “altissima” è anche “purissima”: e se è bassissima?

Come ci informa lo stesso servizio Rai sul “giacimento” ibleo di acqua “probabilmente potabile” qualche problema in tal senso è già stato intuito. Infatti, si può già apprendere da altre fonti on line che l’acqua in questione sarebbe “debolmente salmastra” e che solo mediante opportuni trattamenti di desalinizzazione e demineralizzazione potrebbe essere utilizzata ad uso idropotabile. Ovvero, attraverso trattamenti del tutto simili a quelli che occorrerebbero per l’acqua di mare, con la differenza che quest’ultima si trova, per definizione, a quota 0.

Resterebbero gli usi irrigui, ma per quelli l’acqua c’è già e viene regolarmente ignorata. E non è un altro clamoroso scoop, questa volta di chi scrive, ma la banale constatazione dell’esistenza di una risorsa idrica che da decenni si cerca di sfruttare senza riuscirci, nonostante i finanziamenti dell’Unione Europea, regolarmente perduti: si tratta del prodotto dei depuratori, spesso di ottima qualità, che da decenni si pensa di distribuire nelle campagne riducendo il ricorso a preziose fonti idriche. E che regolarmente, viene buttato a mare.

In realtà, anziché riferire di salvifiche soluzioni sotterranee, l’informazione dovrebbe dare un’altra e molto più utile notizia: le risorse idriche, in Sicilia come in tante altre zone d’Italia (e non solo) che soffrono periodicamente la siccità ci sono. Occorre, semplicemente, essere in grado di utilizzarle con intelligenza ed efficienza. Quello che non si può fare mediante un sistema infrastrutturale che si rivela, ancora una volta, del tutto inadeguato. Frutto amaro di una assenza di programmazione e di “visione” che non risale certo a ieri, ma che è vecchia di almeno 40 anni, a causa di una politica che, nonostante le diverse colorazioni, presenta un unico comune denominatore: l’attenzione sempre più spasmodica alle poltrone, accompagnata all’indolenza sempre più marcata verso l’inefficienza dei vari enti preposti alla gestione dell’acqua.

A tal proposito, per non dilungarci troppo, prendiamo a prestito le parole di un esperto, l’ing. Tuccio D’Urso, che abbiamo trovato sula sua pagina Facebook qualche giorno fa. Si tratta di un funzionario regionale di primissimo ordine e rara esperienza, che ha seguito in prima persona il tema dello sfruttamento delle risorse idriche in Sicilia: “nel 1991 per incarico del presidente Nicolosi ho redatto la sintesi di tutti gli interventi nel settore idrico allora finanziati, realizzati, o in corso di realizzazione. Una massa di investimenti che, solo per elencarli, ho avuto bisogno di 47 pagine, la somma allora del denaro investito sommava a 7000 miliardi di lire, oggi non meno di 8 miliardi di euro, senza contare l’inflazione che ne moltiplicherebbe l’importo finale almeno per quattro. Incredibile constatare che quanto allora risultava in costruzione lo è tuttora, come la diga di Blufi, fondamentale per approvvigionare l’agrigentino e il nisseno. Altrettanto incredibile constatare che nessun intervento di rilievo è stato realizzato dopo il 2000 quando il sistema idropotabile della Sicilia è stato privatizzato. Ma oggi non si può non ribadire con forza che le crisi idriche ricorrenti nella nostra isola vanno contrastate da un sistema di potabilizzazione dell’acqua di mare basato su dissalatori nei pressi delle principali città, così come serve acqua dissalata per la agrumicultura della piana di CT”.

Come è facile comprendere da queste parole, la soluzione della siccità in Sicilia non si trova, di certo, a più di 700 metri di profondità.

Condividi