Sono oltre trent’anni che in Italia si parla di previdenza ed in particolare di riforma previdenziale. Nel 1995 ci mise mano Dini inventando la pensione contributiva rispetto a quella retributiva, arrivò poi la Fornero nel 2011 con la sua riforma “lacrime e sangue” con la novità dell’età pensionabile ancorata all’aspettativa di vita e una rigidità eccessiva e poi più o meno ogni anno assistiamo a dei piccoli interventi come le così dette “Quote” di durata molto limitata che non permettono alcuna programmazione a quanti si apprestano a lasciare il mondo del lavoro.
Fiumi di parole, dichiarazioni, convegni, talk show, inserti su giornali e articoli on line per risolvere, o almeno cercare di risolvere un problema che assilla milioni di italiani. Sicuramente le scellerate politiche dei decenni scorsi con regalie elargite a piene mani come le baby pensioni che ancora incidono sulle casse dello Stato per oltre sette miliardi l’anno o il sistema retributivo dove si assisteva ad avanzamenti di carriera a ridosso del pensionamento hanno squassato economicamente parlando il sistema previdenziale che, nonostante tutto e vecchio ormai di oltre ottant’anni ancora regge consentendo all’INPS di essere nel 2023 in attivo di oltre quindici miliardi.
Con il tempo, però a causa dell’aumento dell’aspettativa di vita che costringe l’Erario a pagare pensioni per più anni e dell’effetto combinato della carenza di nuovi nati con record negativi ogni anno, fanno prevedere che questo sistema a ripartizione “la pensione viene pagata da chi attualmente lavora” con l’andare degli anni possa andare in crisi. Sono necessarie, quindi, delle modifiche che non possono essere solamente l’aumento dell’età pensionabile in un sistema improntato alla rigidità.
E’ necessario a mio parere, ribaltare completamente quello che si è pensato in questi ultimi anni mettendo il lavoratore al centro delle proprie scelte esistenziali. Proporre una amplissima flessibilità in uscita che parta dai 62 anni e arrivi fino a 70 anni con lievi penalizzazioni annue a decrescere dai 66 anni (che diverrebbe l’età di pensionamento ordinamentale) a cui contrapporre delle incentivazioni annue fino al massimo beneficio raggiungibile a 70 anni. Il tutto ovviamente a scelta del lavoratore e solamente per alcune tipologie di mestieri con due sole condizioni quella di avere almeno 20 anni di contributi effettivamente versati ed avere un assegno previdenziale di almeno una volta e mezza il trattamento minimo (all’attualità circa 790 euro mensili). In questo modo il costo che avrebbe l’Erario per chi volesse uscire prima dal mondo del lavoro sarebbe compensato, almeno in parte, da chi volesse, invece, rimanere al lavoro oltre l’età ordinamentale.
Al tempo stesso, oltre ovviamente a creare una pensione di garanzia per giovani e donne, dare un fortissimo impulso alla previdenza complementare aumentando l’importo da dedurre fermo da oltre vent’anni, dimezzando le imposte e consentendo una maggiore opportunità di accesso alla riscossione, il tutto sotto la garanzia dello Stato. Infine dimezzare il costo del riscatto della laurea per invogliare il lavoratore a contribuire con benefici per l’Erario che incasserebbe un importo che, all’attualità, a causa dei costi proibitivi è praticamente nullo.