Alcide De Gasperi, lo statista democristiano è uno degli italiani più grandi del secolo scorso

Alcide De Gasperi: credo esista accordo tra gli storici nel definire lo statista democristiano uno degli italiani più grandi, forse il più grande, del secolo scorso

StrettoWeb

Domani, 19 agosto, saranno 70 anni dalla morte di Alcide De Gasperi. Credo esista accordo tra gli storici nel definire lo statista democristiano uno degli italiani più grandi, forse il più grande, del secolo scorso. Una grandezza che diventa più luminosa man mano che ci allontaniamo dal suo tempo. In un’Italia sconfitta e, a fronte di un discredito generalizzato che cingeva come un alone maleodorante il nostro Paese, la straordinaria dignità della sua rappresentanza istituzionale fece scuola. Alla conferenza di pace di Parigi già l’incipit del suo discorso ai paesi vincitori rappresenta politicamente una perla. “Prendendo la parola in queto consesso, sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me”. Di altrettanta dignità “laica”, non priva d‘intima sofferenza, appare il netto rifiuto opposto nel 1952 a papa Pacelli che pretendeva un accordo elettorale coi missini alle elezioni amministrative di Roma. Alla sua non comune capacità di tenere saldo il timone della guida politica si affiancava la capacità di risolvere i problemi materiali di un paese che all’indomani di una guerra persa apparivano di portata gigantesca.

De Gasperi e la situazione postbellica dell’Italia

Se si volge lo sguardo alla situazione postbellica dell’Italia che De Gasperi eredita, si rischia di avere le vertigini. Qualche cifra riportata da un testo di Giulio Andreotti: “Tre milioni di vani ridotti in macerie, quattro milioni lesi in profondità, inservibile il 35 per cento delle strade extraurbane, tre mila ponti distrutti, 604 ospedali rasi al suolo, addirittura mille cimiteri devastati dalle bombe”. De Gasperi affrontò i gravi problemi dell’Italia del suo tempo con una prodigiosa capacità risolutiva. Una qualità non sempre presente nel politico italiano, nel quale spesso, di fronte a un grosso problema, la tendenza al rinvio, prende, per storica attitudine, il sopravvento. Al contrario il leader democristiano, un cattolico sorretto da una fede incrollabile – è sua la frase che nessun laico osò mai criticare “Reggere uno Stato implica un forte rapporto con Dio” – decideva. E lo faceva in fretta. Ricordo a tale proposito un episodio poco conosciuto della sua vita politica. In uno dei suoi frenetici viaggi del dopoguerra si ritrova a Matera con Emilio Colombo, il leader riconosciuto di quel territorio. Viene invitato a vedere i Sassi e quell’umanità dolente che, frammischiata con gli animali, vive in quelle grotte. Immediatamente segnato da quell’esperienza di vita subumana, la stessa sera, dalla prefettura della città lucana, convoca un Consiglio dei ministri per il giorno dopo e tenta un’operazione difficilissima. Quella di mandare via gli uomini da quelle grotte. Il miracolo, perché di miracolo si tratta, si compie in 12 mesi.

De Gasperi e la cassa del Mezzogiorno

Nel 1950 De Gasperi inventa la Cassa del Mezzogiorno. La chiama Cassa per dimostrare che era un ente che portava soldi “cash” per un Meridione in ritardo di sviluppo. Negli anni successivi tale istituzione ha avuto una rovinosa caduta d’immagine, ma in quegli anni lontani la Cassa fu decisiva per la crescita del Mezzogiorno. Naturalmente lo statista trentino guardava anche con particolare attenzione al Nord dove la guerra aveva distrutto le fabbriche che lui considerava il motore della rinascita dell’intero Paese. In questa logica fu costretto a compiere uno degli atti che appare, a distanza di decenni, a dir poco, controverso. Stipulò il 23 giugno del 1946 un accordo tra il governo italiano di unità antifascista, che comprendeva quindi comunisti e socialisti, e quello belga un accordo bilaterale che oggi potrebbe apparire indecente.

L’Italia offriva gli uomini, rigorosamente del Sud, e il Belgio, il carbone, che serviva per riavviare le fabbriche del Nord. Base di lancio di quello che fu poi definito il miracolo economico italiano. In quella utilizzazione forzata della mano d’opera meridionale a favore dell’industria settentrionale risiedeva, nella visione del mondo dello statista trentino e del suo esecutivo, un concetto di unità ereditato dalla tradizione risorgimentale e trasfuso nella Costituzione italiana. Certo molti di quegli uomini, che si calavano ignari negli abissi delle miniere belghe, tra i quali molti calabresi, nell’agosto del 1956, morirono nella miniera di Marcinelle, dopo anni di vero e proprio schiavismo. Venivano infatti trattati come bestie. Era loro vietato entrare nei bar e venivano definiti “fascisti”, “sporchi maccaroni”.

De Gasperi era un uomo che si era fatto sul campo

Concludendo, De Gasperi era un uomo che si era fatto sul campo, un prodotto delle circostanze storiche, non costruito in vitro dai mutevoli umori dei media, come oggi se ne vedono tanti in giro per l’Italia. Diventa leader sul campo emergendo in un mondo ancora ancora gonfio di retorica. Un lascito del passato regime. Lui era del tutto diverso dal modello di italiano circolato per venti anni, l’uomo forte, il guerriero. Era colto come tanti politici del suo tempo, da Churchill e De Gaulle, ma non trascinava le folle. Non tracciava rotte imperiali. Parlava dei bisogni degli italiani e ne studiava i rimedi. Come dice Carlyle con una bellissima immagine: “In fondo l’eroe politico è sempre il contrario della maggioranza del paese che l’esprime”. Una definizione, che sta a pennello a un uomo come De Gasperi. Il quale in vita fu avversato in egual misura e in una maniera asprissima da tutte le opposizioni. Sia dalla sinistra, che non gli perdonò l’estromissione nel 1947 dal governo di unità nazionale, sia dalla destra liberale che non condivideva la riforma agraria e sia dai neofascisti che lo definivano con disprezzo “l’austriaco”.

Eppure, quest’uomo così osteggiato, appena morto, trovò subito nella memoria profonda degli italiani uno straordinario coro di consenso. Il treno, che riportava la sua salma da Borgo di Valsugana a Roma per i funerali di Stato, fu costretto a fermarsi in moltissime stazioni. Molti abitanti di paesi e città, adagiati lungo il percorso ferroviario, lo bloccarono per tributare all’uomo di Stato l’estremo saluto. Un fenomeno raro che capita solo ai grandi.

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