Falcomatà come il macellaio di Oliveto (ma al contrario): quando la legge non è uguale per tutti

L'accusa di scambio elettorale politico mafioso ha portato a Sindaci e Assessori arrestati in tutt'Italia, mentre a Reggio Calabria Falcomatà rimane in libertà

StrettoWeb

Ha fatto grande scalpore negli ultimi mesi a Reggio Calabria il caso di Francesco Putortì, il macellaio di Oliveto che è rimasto addirittura chiuso in carcere per quattro mesi con l’unica colpa di essersi difeso da una brutale aggressione da parte di due ladri catanesi all’interno della sua abitazione. Pochi giorni fa Putortì è stato scarcerato in base ad una specifica istanza dei suoi legali difensori, che facevano espressamente riferimento ad un’anomalia giuridica paragonando il trattamento ricevuto da Putortì a quello della donna che a Viareggio, dopo aver subito uno scippo in strada, ha inseguito e ucciso il suo ladro e non è mai andata in prigione.

Su StrettoWeb avevamo parlato di contraddizioni giuridiche tra il Ducato di Lucca e il Regno delle Due Sicilie, chiedendo chi stesse sbagliando: trattamento troppo severo con il macellaio di Reggio Calabria o troppo leggero con la donna di Viareggio? Dopo pochi giorni, il Tribunale di Reggio Calabria ha fatto dietrofront e, proprio alla luce del caso di Viareggio, ha concesso a Putortì quantomeno i domiciliari, in attesa del processo.

Un’altra anomalia giuridica in riva allo Stretto: il caso di Falcomatà

In questi giorni sta emergendo un’altra grande anomalia giuridica che riguarda il Tribunale di Reggio Calabria, forse ancor più clamorosa. Com’è noto a tutti, poco più di tre mesi fa, a Giugno 2024, Reggio Calabria è stata sconvolta dall’operazione “Ducale”, una maxi inchiesta che ha certificato ulteriori gravi brogli elettorali alle elezioni comunali del 2020 ad opera del Partito Democratico, con il capogruppo Giuseppe Sera e addirittura il Sindaco Giuseppe Falcomatà che sono stati iscritti nel registro degli indagati per aver chiesto l’aiuto della ‘ndrangheta per vincere le elezioni tramite il famoso “Danielino”, Daniel Barillà, esponente del Pd e genero del super boss di Sambatello. Clamorose le intercettazioni emerse nell’inchiesta, che evidenziavano la grande confidenza tra Barillà e Falcomatà. L’accusa per gli indagati, tra cui lo stesso Sindaco Falcomatà e l’allora capogruppo del Pd Giuseppe Sera, è di “scambio elettorale politico mafioso“.

La cosa strana, o che almeno sta emergendo come tale in questi giorni, è che a Reggio Calabria nessuno degli indagati è in carcere e neanche ai domiciliari. Daniel Barillà, il “riferimento politico del clan” secondo la Procura, ha soltanto un modesto obbligo di firma, ma per il resto è in assoluta libertà. Giuseppe Sera, il consigliere comunale del Pd, è in totale libertà, tanto che continua quotidianamente la sua attività politica partecipando ai lavori di Palazzo San Giorgio, rilasciando dichiarazioni e comunicati stampa. A metà agosto, la Procura di Reggio Calabria ha presentato ricorso contro il giudice del Tribunale e ha chiesto che sia Sera che Barillà vadano in carcere.

Nel caso di Falcomatà, invece, indagato a piede libero, non c’è stata neanche la richiesta di alcuna misura cautelare. Perché? Evidentemente i magistrati ritengono che non possa reiterare il reato, né inquinare le prove o tantomeno fuggire in latitanza. Effettivamente le cose stanno così. In assenza di altri appuntamenti elettorali, è difficile che Falcomatà possa chiedere di nuovo aiuto alla ‘ndrangheta per farsi votare anche perchè ormai essendo alla fine del secondo mandato, non può più neanche ricandidarsi (almeno al Comune). Le prove, poi, sembrano già così tanto cristallizzate con tanto di documenti, nomine, incarichi e intercettazioni, che in alcun modo il Sindaco potrebbe inquinarle. Infine, qualora decidesse di darsi alla latitanza con tanto di fascia tricolore sulle spalle, basterebbe andare a ricercare un altro Comune in giro per il mondo così disastrato in termini di servizi e inefficienza amministrativa che sicuramente sarebbe lì a continuare a fare danni, e quindi troppo facile da individuare e riportare a casa.

Ironie a parte, non abbiamo davvero alcun dubbio che per Falcomatà non si profili in alcun caso l’esigenza cautelare alla luce di quanto sopra. Però non si riesce a comprendere, anche qui così come per il caso del macellaio di Oliveto, com’è possibile che in Italia, quindi nello stesso Paese, ci possano essere trattamenti così differenti per gli stessi identici reati. E in questo caso, a differenza del povero Francesco Putortì, Falcomatà è baciato dalla fortuna.

In pochi mesi, infatti, sono stati tantissimi altri i Sindaci, Governatori, Assessori o rappresentanti istituzionali che per la stessa identica accusa, “scambio elettorale politico mafioso“, o addirittura in alcuni casi con accuse molto meno gravi, sono finiti agli arresti. In alcuni casi in prigione. Tutti, tranne Falcomatà.

Il caso di Giovanni Toti in Liguria

Il primo e più clamoroso caso è stato quello del governatore della Liguria Giovanni Toti: a lui non è mai stata neanche contestata l’imputazione di “scambio elettorale politico mafioso“. La Procura di Genova lo ha accusato di corruzione, in quanto avrebbe ottenuto finanziamenti ai suoi comitati elettorali in cambio di favori a imprenditori locali. Un reato grave, ma meno di quello per cui è indagato Falcomatà: nel caso di Toti, non è mai stato neanche ipotizzato il coinvolgimento della criminalità organizzata. Toti è stato quindi costretto agli arresti domiciliari finché non si è dimesso da Presidente della Regione Liguria. La Procura della Repubblica di Genova ha infatti revocato i domiciliari dopo oltre 80 giorni, soltanto dopo le dimissioni di Toti.

E così mentre a Reggio Calabria, quindi nel liberale, civile ed evoluto Regno delle Due Sicilie, il Sindaco di Reggio Calabria Giuseppe Falcomatà attende il processo in libertà assoluta e continua a fare il Sindaco e addirittura a partecipare ad eventi istituzionali antimafia e per la legalità, dopo aver – secondo la Procura – chiesto aiuto proprio alla mafia per vincere le elezioni, nella Repubblica marinara di Genova che invece ha assunto una pericolosa deriva giustizialista e tirannica, il governatore Giovanni Toti è stato privato della sua libertà e addirittura ricattato: si sarebbe dovuto dimettere, se quella libertà l’avesse voluta riconquistare. E così ha fatto.

Ma c’è molto di più.

Il caso di Antonino Naso a Paternò

Nei mesi scorsi il Comune di Paternò (Catania) è stato travolto dall’inchiesta “Athena” che ha fatto emergere gli interessi dei clan mafiosi della zona sul territorio, comprese attività pubbliche e istituzionali. Tra gli indagati c’è stato sin dall’inizio il Sindaco di Paternò, Antonino Naso, di centrodestra, e altri esponenti di Giunta e Consiglio Comunale. A Paternò il Sindaco non è stato inizialmente arrestato, ma la Procura ha fatto ricorso e ha chiesto l’arresto che il Tribunale di Catania ha disposto proprio la scorsa settimana. Naso, così, è finito ai domiciliari pochi giorni fa.

Per il Sindaco di Paternò l’accusa è di “scambio elettorale politico mafioso“, la stessa identica per cui a Reggio è indagato Falcomatà. Secondo il Tribunale che ha accolto il ricorso della Procura di Catania, “risulta ricostruibile in via induttiva e con la consistenza dei gravi indizi il raggiungimento di un patto illecito fra il sindaco Naso e la consorteria mafiosa locale“. L’accordo, secondo quanto ricostruito dal Tribunale, prevedeva “un sostegno elettorale” in cambio dell’interessamento del Sindaco Naso per “l’assunzione di congiunti mafiosi locali” e di “destinare a Comis un assessorato di interesse economico“. Esattamente tutto ciò che poi si era verificato. Per questo motivo il Tribunale di Catania ha disposto l’arresto per il Sindaco.

E nonostante Catania sia nel Regno delle Due Sicilie tanto quanto Reggio Calabria, in riva allo Stretto evidentemente la legislazione è diversa se Falcomatà e allo stesso modo il capogruppo Pd Sera sono ancora in totale libertà nonostante abbiano la stessa identica imputazione di “scambio elettorale politico mafioso” persino con lo stesso identico iter di Paternò (Daniel Barillà, il referente della ‘ndrangheta reggina, è stato assunto addirittura nella struttura del Pd del Comune di Reggio Calabria e poi nominato da Falcomatà in un organo di controllo dello stesso ente).

Qualcuno suggerisce un’evidenza che spiegherebbe l’anomalia: dipende dal colore politico, non dalla legislazione. Siamo sempre nel Regno delle Due Sicilie, siamo sempre in contesto di accusa di “scambio elettorale politico mafioso“, quindi l’unica differenza è che il Sindaco di Paternò è di destra e quindi va punito mentre quello di Reggio è di sinistra e quindi deve essere tutelato.

Un teorema che viene immediatamente smentito da un ulteriore, clamoroso, episodio accaduto nei giorni scorsi sempre dentro i confini del Regno.

Il caso di Francesco Seminario a Casabona

Venerdì scorso, il 4 ottobre, la Procura della Repubblica di Catanzaro ha disposto l’arresto di dieci persone (8 in carcere, 2 ai domiciliari) per reati di mafia. Tra gli arrestati c’è anche il Sindaco di Casabona (Crotone), Francesco Seminario, che è finito addirittura in carcere ed è del Pd. L’accusa? “Scambio elettorale politico-mafioso“. Sempre la stessa. Misura cautelare anche per il suo assessore Anselmo De Giacomo, che è ai domiciliari.

Stavolta come la mettiamo? Stesso identico reato. Stesso identico partito. Stessa identica Regione. L’unico a non essere neanche sfiorato dagli arresti è Falcomatà.

Evidentemente al Tribunale di Reggio Calabria sono molto più bravi ad interpretare le leggi rispetto a tutti gli altri: ci farebbe molto piacere che qualcuno ci illustrasse pubblicamente le motivazioni di quelle che, ad occhi profani, sembrano apparenti contraddizioni.

Il “caso” della Commissione d’Accesso

Quanto accaduto nei giorni scorsi a Paternò e a Casabona ha fatto tornare d’attualità il caso della Commissione d’accesso anche al Comune di Reggio Calabria. E’ vero che sono iter lunghi e complessi e che mai, nella storia, una Commissione d’accesso è stata nominata nell’immediatezza di un’inchiesta giudiziaria ma l’iter richiede tempi ben precisi. Però dopo tre mesi abbondanti, su Reggio Calabria sembra calato il silenzio e invece sia per Paternò che per Casabona adesso la Commissione d’Accesso viene considerata inevitabile. Venerdì l’ANSA ha scritto che “Adesso per il Comune di Casabona si profila, inevitabilmente, la nomina di una Commissione d’accesso e lo scioglimento per condizionamenti da parte della criminalità organizzata“, e dopo tre giorni dalla Prefettura locale non c’è ancora stata alcun tipo di smentita.

Nel caso di Paternò, invece, sono addirittura politica e istituzioni ad auspicare l’arrivo della Commissione d’Accesso: si è esposto in prima persona Antonello Cracolici, presidente della commissione Antimafia all’Ars, dicendo senza mezzi termini che “Oggi non ci sono più alibi: il ministero degli Interni non può avere approcci diversi per questioni simili. A Paternò va disposto l’accesso ispettivo. In gioco c’è la nostra democrazia“; poi il Sindaco di Misterbianco, Nino Di Guardo, ha persino insinuato che “la legge non è uguale per tutti” perchè Paternò sarebbe “feudo del Presidente del Senato La Russa”, e auspicando anch’esso che in base alle leggi vigenti non può non arrivare la Commissione d’Accesso nel Comune etneo; infine il segretario regionale del Pd Sicilia e segretario della commissione nazionale Antimafia, Anthony Barbagallo, ha incalzato il Ministro degli Interni ad inviare la Commissione d’Accesso “al più presto”.

Non c’è dubbio che, in merito alla legislazione vigente, la Commissione d’accesso dovrà arrivare tanto a Casabona quanto a Paternò. E quindi, inevitabilmente, anche a Reggio Calabria. Altrimenti davvero significa che lo Stato non esiste e il Ministero risponde ad altre logiche che non siano quelle delle leggi vigenti, come in Sicilia insinuano in questi giorni gli esponenti del Pd. Ma se su Paternò accusano il governo Meloni di proteggere l’Amministrazione di Centrodestra nel “feudo di La Russa“, chi sarebbe il feudatario di Reggio Calabria e chi starebbe proteggendo Falcomatà?

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