Lacrime di commozione al Parlamento Europeo per la testimonianza da brividi di Emanuela De Vito, affermato avvocato di Reggio Calabria che 19 anni fa, nel 2005, quando aveva appena 17 anni, ha sfiorato la morte per la mano criminale dell’ex fidanzato. La professionista reggina ha raccontato la propria esperienza in chiusura dell’incontro “Intelligenza Artificiale per il cambiamento: combattere la violenza di genere con l’innovazione” organizzato da Giusi Princi, che già da molti anni la ha presa per mano a Reggio Calabria aiutandola a ritrovare se stessa, rinascere e ripartire. Lei è riuscita a farlo nel modo migliore.
Le sue parole di oggi a Bruxelles: “Mi ero illusa di aver trovato l’amore della mia vita, ero cresciuta con lo stereotipo dall’asilo che se il bambino ti picchia significa che gli piaci. Non ero innamorata: ero terrorizzata. Lui mi aveva annullata, mi aveva reso nulla, mi diceva che non valevo nulla, che se non ci fosse stato lui nella mia vita io non avrei avuto un senso di esistere. La mia importanza era data solo da essere la sua compagna. Quando mi è arrivato il primo schiaffo, non ho percepito nulla: lui stava colpendo una bambola che dentro era già morta. Poi iniziarono il primo calcio, le botte e gli schiaffi sempre più frequenti, io iniziavo a nascondere i lividi perchè non volevo dare un ulteriore dolore a mio padre che faceva chemioterapia. Pensavo di uscirne da sola prima o poi, mentre un giorno fermandomi ho capito che mi avrebbe uccisa, perchè le botte erano tante, erano diventate tutti i giorni. Ho avuto paura di perdere la mia famiglia e ho detto basta a questa relazione, ho deciso di interromperla, aiutata molto dai miei compagni che mi chiedevano perchè io continuavo a stare con lui e non uscivo mai con loro, perchè ero sempre chiusa e isolata. Quando ho preso questa decisione di lasciarlo, è iniziato l’inferno: mi chiamava cento volte al giorno, mi seguiva e infatti io non uscivo più neanche di casa. Un giorno che riuscì a vedermi mi disse che le persone come me dovevamo morire e che i miei genitori mi avrebbero pianto su una tomba. Ero sicuro che lo avrebbe fatto: se oggi sono qui a raccontare la storia non è merito suo: mi sferrò quattro coltellate in organi vitali e non ha sbagliato un colpo. Se io sono ancora qui, è solo per l’intervento dei medici che furono pronti. Lui ha colpito per uccidere, tutto il resto è stato solo un miracolo, forse il destino, sicuramente l’aiuto dei medici che mi hanno assistito immediatamente. Conclusa con lui, ho avuto la vittimizzazione secondaria, e proprio lì ho deciso di diventare avvocato. Cercavo di capire come funzionasse il sistema giudiziario: lui fu condannato a 10 anni per tentato omicidio, ma ne scontò soltanto tre. Volevo quindi capire cosa non avesse funzionato, perchè la giustizia non mi avesse tutelato. La verità che ho capito col tempo è che per il mio dolore non sarebbe cambiato nulla, neanche se gli avessero dato l’ergastolo. Il mio percorso con lui è finito quando lui ha compiuto quel gesto estremo. Quando si parla di punizioni e inasprimento delle pene, io mi domando a che servirebbe. Ciò che servirebbe è qualcosa che ci fa vivere in una società in cui queste cose non accadano mai più. Avevo bisogno di qualcuno che curasse la mia anima, dovevo rinascere come persona, crescere come persona, e rendermi la donna che sono oggi. Oggi sono orgogliosa della donna che sono grazie alla mia famiglia, che non mi ha mai lasciato da parte, e a tutti quelli che mi hanno aiutato e mi hanno voluto bene”.