Articolo del Dott Roberto Bevacqua, Direttore Krysopea Institute -L’espansionismo occidentale, la ricerca di nuove fonti di approvvigionamento di risorse e la spinta morale dei circoli intellettuali per farsi carico dei problemi dei continenti arretrati, diede spazio alla rivendicazione territoriale di nuovi spazi nel XIX secolo e legittimò la spartizione dell’Africa.
Fino al 1870 le potenze degli stati europei operavano il controllo di circa il 10% del continente africano, meno di mezzo secolo dopo e prima dello scoppio della prima Guerra Mondiale i possedimenti europei in Africa toccavano il 90%. Francesi e inglesi operarono una penetrazione incessante allo scopo di appropriarsi di risorse e di utilizzare manodopera a buon mercato, garantirsi sbocchi commerciali e controllo strategico di aree interne, vie carovaniere, porti e ampi specchi di mare. Gli altri stati europei occuparono e sfruttarono ciò che era rimasto fuori dal controllo franco britannico.
Sulla base di una spartizione unilaterale voluta dalle potenze europee tese a dirimere diritti di dominio sui territori africani privi di ordinamento legislativo e di una sovranità riconosciuta dal diritto internazionale, ossia dagli stessi ordinamenti europei. A regolamentarne la spartizione fu indetta la Conferenza di Berlino nel 1884 voluta da Bismark.
La Conferenza sul Congo era volta a regolare il commercio europeo in Africa centro-occidentale e con tale finalità disciplinò il commercio europeo nelle aree dei fiumi Congo e Niger rendendo più libero il commercio delle potenze confinanti, estese le aree di influenza delle stesse, definì i criteri di colonizzazione delle coste, ma in quanto già occupate dalle potenze occidentali finì solo per sancirne il possesso giuridico ed estenderne hinterland, ossia le rivendicazioni e il successivo possesso delle aree confinanti e di quelle interne se non ancora occupate.
Infine segnò la nascita dello Stato Libero del Congo sotto l’influenza di Leopoldo II del Belgio, attraverso la legittimazione dell‘Association internationale du Congo, ovvero un’organizzazione fondata dal sovrano belga che esplorò i territori a est delle rive del Congo stabilendo l’État Indépendant du Congo, di cui Leopoldo II divenne sovrano. Da questo momento inizierà un periodo di massicce spoliazioni di risorse, ad iniziare del caucciù e dall’avorio e di sfruttamento feroce della manodopera congolese, costretta a lavori in condizioni durissime da parte di compagnie private concessionarie delle piantagioni e delle miniere. Maltrattamenti, stupri, ostaggi, uccisioni, lavori forzati, distruzione di villaggi da parte dei militari della Force Publique che portò alla morte di dieci milioni di persone in quasi un trentennio di prevaricazione e sfruttamento incontrollato di risorse naturali.
Con la cessione del Congo da Leopoldo II al Governo belga lo sfruttamento economico continuò con forme di gestione che migliorarono le condizioni di lavoro della popolazione congolese. Si concesse una forma di sindacalizzazione, si mitigarono le vessazioni delle compagnie private, si aprirono spazi per la partecipazione della popolazione locale nei ruoli amministrativi più bassi, si intensificarono gli investimenti infrastrutturali. La spinta delle rivendicazioni indipendentiste di molti stati africani all’indomani della fine della seconda guerra mondiale investì anche i possedimenti centroafricani del Belgio che concesse l’indipendenza nel 1960.
Il leader del panafricanismo Patrice Lumumba il 30 giugno del 1960 vince le elezioni a capo del Mouvement National Congolais, ma è solo una breve parentesi. Interessi economici, motivi geopolitici e ideologici convergeranno contro di lui, così solo 75 giorni dopo la proclamazione di indipendenza del Congo viene destituito a seguito del tentativo secessionista del Katanga di Moise Tshombe. Il Katanga è una delle zone minerarie più ricche del Congo e in mano a compagnie di estrazione belga. Il 17 gennaio 1961, Lumumba è assassinato a Shilatembo, nel Haut-Katanga (sudest) da separatisti katanghesi e mercenari belgi. Il suo corpo, sciolto nell’acido, non sarà mai più ritrovato.
Nel 1965 sale al potere Mobutu che governerà per 32 anni, istaurando una dittatura inossidabile durante la quale eserciterà un dominio autocratico assoluto, operando una sistematica depredazione di risorse a proprio vantaggio e portando il paese sull’orlo del default
Focalizzando l’analisi all’attuale Repubblica Democratica del Congo, ex Zaire, situata a est del fiume Congo, mentre la parte a occidente del grande fiume rimase in mano francese, oggi rappresentata dalla Repubblica del Congo. Nasce così lo Scramble for Africa soprattutto per le maggiori potenze coloniali Francia e Gran Bretagna che dopo la fine della prima guerra mondiale, con l’accordo Sikes-Picot, ridisegnarono artificiosamente e in base a rapporti di forza e di interessi economici i confini non solo dell’Africa, ma anche del Medio Oriente contribuendo a rendere instabile socialmente, etnicamente, religiosamente e geograficamente gli stati africani e mediorientali anche dopo la loro dichiarazione di indipendenza.
Linee di confine geografiche e ideologiche tracciate a prescindere da evidenze storiche, sedimenti culturali, differenze antropologiche, disparità economiche dei popoli che vi abitavano. Intere etnie furono divise smembrate tra stati diversi, altre da sempre rivali furono costrette a stare unite senza nessun processo di integrazione sociale, scatenando contrasti sanguinosi, tensioni tribali, che oggi, unitamente ad altre ragioni legate al warlordismo, a interessi economici e a dinamiche geopolitiche continuano a generare conflitti, morte e distruzione.
La divisione sistematica su base razziale tra Tutsi, Hutu e Twa operata dal dominio belga finì per disgregare volutamente la popolazione ruandese. La volontà di creare un’élite Tutsi, gruppo etnico Watussi aristocratico dell’Africa centro-orientale dedito all’allevamento di bestiame, più ricco e benestante del gruppo Hutu, agricoltori di rango più modesto, concedendogli la possibilità di cogestire in minima parte il potere amministrativo belga, distinguendoli sia dal punto di vista fisico che per attitudini al governo dalle altre etnie messe ai margini della gestione del potere, relegati in ruoli subordinati ed emarginati, come i pigmei Taw.
La regione Ruanda – Urundi era stata unificata già nel XVI secolo dai Tutsi, sottomettendo Hutu e Twa, etnie con cui condividono lingua, religione e cultura, istaurando una monarchia di tipo feudale. L’appoggio dei colonizzatori belgi ai Tutsi si interrompe negli anni ’50. I tutsi iniziano a progettare l’indipendenza del Paese dal Belgio mentre gli Hutu si ribellano per lo sfruttamento coloniale e le condizioni di lavoro pesante, i colonizzatori sceglieranno allora di appoggiare il risentimento e le rivendicazioni Hutu. Tutto questo, funzionale al mantenimento del potere delle forze coloniali in Ruanda, fomentò divisioni e un evidente regime di discriminazione razziale, generando inevitabilmente rabbia e frustrazione soprattutto nei suprematisti Hutu e che furono alla base del genocidio ruandese operato dagli Interahamwe, l’ala giovanile degli estremisti Hutu, e dalla milizia Impuzamugambi.
Nel 1957 nasce il partito Parme hutu che rovescia i termini della superiorità razziale Tutsi e attraverso un processo di rivoluzione sociale porta prima all’affermazione del partito Hutu che scardina il sistema di potere e la gestione delle risorse ruandesi detenute dagli apparati tutsi e dalle forze coloniali che, per tutelare ognuno i propri interessi, si saldarono per gestire il processo di transizione che fu caratterizzato da anni di guerra civile (1959-1961) e successivamente contribuisce al rovesciamento della monarchia negli anni sessanta.
Nel 1962 viene proclamata la repubblica, (di fatto nascono due stati Rwanda e Burundi) con a capo Gregoire Kayibanda a cui succederà dopo un putsch Juvénal Habyarimana, nel 1973. Le violenze si attenuano in parte e non si realizza una vera pacificazione del paese, così continuano le fughe di ampi strati della popolazione Tutsi ospitati nei campi profughi dell’Uganda e del Congo fino a tutti gli anni ottanta. Nel 1987 la diaspora tutsi dà vita al Fronte Patriottico Ruandese, con a capo Paul Kagame e Fred Rwigyema. In questi anni si accentuano soprusi e le violenze contro i Tutsi che sono costretti in massa a scappare dal Paese. I movimenti armati di esuli Tutsi sostenuti dall’estero, sfruttano la crisi economica sul finire degli anni ottanta per invadere il Ruanda, aumentano da ambo le parti scontri e violenze.
Nonostante una nuova costituzione nel 1991 che apre al multipartitismo e la firma, il 4 agosto 1993, degli accordi di Arusha, che garantisce il rientro di tutti i profughi Tutsi dai paesi vicini e una compartecipazione governativa con il Fronte Patriottico Ruandese, continuano i crimini isolati e sale la tensione, si comprende che qualcosa sta covando, che l’odio interetnico sta per esplodere. Sotto gli occhi delle poche forze Onu si formano depositi di armi, si addestrano suprematisti Hutu, si stilano liste di abitanti Tutsi nelle diverse aree abitative. Il generale delle forze di pace Onu Romeo Dellaire invia notizie dettagliate al quartier generale delle Nazioni Unite a New York, informandoli sul rischio di un’ondata di violenza senza precedenti, ma sia il segretario dell’Onu che Francia, RU e Usa ritengono di non avallare l’invio di truppe, manca la volontà politica di intervenire preventivamente, mancherà la volontà politica e le risorse militari anche dopo l’inizio del genocidio fino alla sua fine.
La crisi economica ruandese convoglia la rabbia verso i Tutsi, le differenze sociali alimentano l’odio. È il 6 aprile del 1994 quando l’aereo del presidente rwandese Juvénal Habyarimana, esponente della corrente moderata della maggioranza Hutu, insieme al presidente del Burundi, Cyprian Ntayamira, di ritorno da Arusha (Tanzania) dove era in corso una trattativa di pacificazione con l’FPR, viene abbattuto da un missile terra-aria mentre stava atterrando a Kigali. Si boicotta il processo di pace e si fornisce così un pretesto per iniziare l’Akusa, la casetta, il delirio di violenza progettato in quegli anni e di cui sarà artefice il colonnello Théoneste Bagosora, capo di gabinetto del Ministro della Difesa e capo degli estremisti dell’Hutu Power.
È il movente che scatena la follia estremista degli apparati paramilitari Impuzamugambi e dell’ala estremista degli Interahamwe sostenuti da politici radicali, membri dell’esercito, polizia, radio machete e parte della popolazione Hutu. In meno di quattro mesi vengono uccisi quasi un milione di persone fra Tutsi e Hutu moderati, come il primo ministrp Agathe Uwilingiyimana, 2 milioni di profughi e una ferita che rimarrà per sempre.
Dopo 100 giorni di cieca violenza, il Fronte Patriottico Ruandese conquista il nord del Paese e pone fine al genocidio, nonostante gli aiuti militari francesi organizzati con l’Operazione Torquoise a sostegno degli Hutu o per lo meno per garantirne la fuga e tutelare i propri interessi economici. L’assenza delle forze Onu è l’immagine più potente dell’indifferenza e dell’impotenza internazionale in questa tragedia umanitaria in cui pulizia etnica, violenza e odio sedimenteranno divisioni che ancora oggi riaffiorano con virulenza.
L’esodo di migliaia di Hutu si diresse in Congo soprattutto nelle aree di Goma e Bukavu, tra di loro anche miliziani armati dell’Interahamwe lasciati passare dai militari francesi, oltre 250.000 oltrepassarono il confine della Tanzania. Da entrambi i fronti, quello congolese e quello ruandese continuarono gli scontri alimentati anche dal movimento ruandese/ugandese, l’Alliance des Forces Démocratiques pour la Libération du Congo/Zaire (AFDL) per rovesciare il regime dittatoriale congolese di Mobutu, che fugge in Marocco dove morirà nel 1997.
Laurent-Désiré Kabila assume la carica di presidente della Zaire rinominato Repubblica democratica del Congo, espelle i ruandesi e integra via via nel proprio esercito i gruppi armati Hutu. Sarà ancora l’est del Congo a pagare per gli scontri tra Ruanda e RDC che vedrà lo scoppio della seconda guerra del Congo tra ribelli appoggiati da Ruanda e Uganda e l’esercito congolese (FARD) sostenuto da Zimbabwe, Namibia e Angola, sia per proteggere i diritti delle proprie popolazioni e l’insediamento di minoranze sul territorio dei Grandi Laghi, sia per gli interessi economici nella regione del Katanga, caucciù, coltan, oro, diamanti, cassiterite, cobalto, tantalio e altri minerali. Nel luglio del 1999 si arriva al cessate il fuoco tramite gli accordi di Lusaka.
La presenza di grandi risorse di materie prime, oro, cobalto, coltan, rame in primis, gli interessi geopolitici di un’area altamente strategica, la competizione geoeconomica di grandi attori globali, la presenza di gruppi armati paramilitari, la miriade di gruppi jihadisti come l’Allied Democratic Forces, la ripresa del warlordismo e le rivalità etniche, sociali ed economiche di gruppi antagonisti e di stati in conflitto oramai da più di mezzo secolo stanno facendo riemergere un conflitto che non si è mai chiuso definitivamente.
Il Ruanda è accusato di saccheggiare le immense risorse minerarie dell’est della RDC e sostenere i ribelli del gruppo armato M23 e che a loro volta sostengono di operare per garantire i diritti delle minoranze Tutsi nell’ex Zaire, l’integrazione dei Tutsi nelle forze armate congolesi e il riconoscimento del loro braccio politico come partito legittimo.
Ma è il lato economico che genera il fulcro del conflitto con il Nord Kivu che rappresenta uno snodo commerciale strategico per i commerci con l’Uganda e il Ruanda e i traffici provenienti dal Kenya. La regione di Goma è ricca di miniere di coltan che fruttano oltre 10 milioni di dollari all’anno. È qui che si concentrano gli interessi maggiori, non solo di attori locali, ma di stati confinanti e potenze globali. Le autostrade in Angola Zambia Tanzania e lo sviluppo ferroviario tra Lobito e Dar es Salaam, tra Angola RDC e Tanzania, favorisce un processo di integrazione di traffici, porti, infrastrutture e risorse strategiche. Controllare le infrastrutture, le zone di transito o le risorse diviene dunque fondamentale, ma al prezzo di far riesplodere la polveriera della zona dei Grandi Laghi, col rischio di allargare tensioni e conflitti.
Bisogna, dunque, che la comunità internazionale si faccia carico della situazione attraverso la ricomposizione del dialogo tra RDC e Ruanda per trovare una soluzione politica, che affronti, attenui e cerchi di risolvere le cause del conflitto. È necessario che prevalga la ragione sulla forza.
Occorre garantire la sovranità e l’integrità dei territori che oggi sono interessati dagli scontri, la salvaguardia delle popolazioni di qualunque etnia, così come deciso negli accordi di Luanda e Nairobi. Necessitano accordi che portino alla pace e favoriscano nel futuro partenariati economici in grado di favorire integrazione tra gli stati, scambi culturali, cooperazione internazionale nel campo dell’educazione e della formazione, investimenti e finanziamenti trasparenti per sviluppo e l’emancipazione delle popolazioni. La corsa all’Africa deve tramutarsi, così come in parte già sta avvenendo, nella corsa dell’Africa che deve emergere come attore geopolitico e geoeconomico in grado di favorire processi di pacificazione, di integrazione economica e sviluppo sociale.