Mi approcciai per la prima volta al Manifesto di Ventotene da giovane studente di filosofia negli ormai lontani anni Novanta e lo feci con il timore reverenziale che viene attribuito a un testo considerato al centro della cultura politica del Novecento. Ma già dopo qualche decina di pagine, a me che venivo da letture profonde, il libro cominciò a mostrarsi deludente. Ci vidi solo il susseguirsi della retorica e di sogni sbiaditi di vecchi miti che la storia aveva ormai da tempo superato, e lo conclusi con fatica. Mi domandai piuttosto il perché di tanta riverenza, anche riconoscendo agli autori la difficoltà del contesto in cui lo avevano partorito. Pur riconoscendo il dramma di tre intellettuali sconfitti dalla lotta politica che costretti alla inattività del confino riversavano in quelle pagine le loro illusioni e le loro speranze dopo la delusione per tutto quello che la vita ne aveva fatto fino a quel momento, bisogna dire che ciò toglie molto poco alla modestia di quelle pagine.
Analisi profonda
Altri intellettuali di quella scia di sconfitti che il fascismo si lasciava dietro avevano saputo fare del momento storico una analisi molto più profonda, da Gobetti, a Rosselli, allo stesso Gramsci che si trovava in condizioni anche peggiori. Così mi venne in mente che alla fortuna del testo avevano partecipato altre cose, estranee al testo stesso. In primis la stessa vicenda degli autori, a cui la prigionia (e successivamente la morte violenta di uno di loro) aveva dopo la liberazione creato l’alone dell’oppressione per la libertà poi trasmesso alla stessa opera, che passava quindi per essere al di là del contenuto un simbolo della lotta e del pensiero antifascista. Si potrebbe facilmente obiettare, a costo di sembrare antipatici, che gli autori visti anche i loro presupposti politici con la libertà avevano poco da spartire, e che a parti invertite si può immaginare come questi carcerati sarebbero stati a loro volta, se avessero potuto gestire il potere, dei carcerieri.
Non sempre i prigionieri delle dittature sono dei nobili individui
Non sempre i prigionieri delle dittature sono dei nobili individui: erano solo degli sconfitti, ma non delle anime belle. Un po’ come riconobbe Manuel Azaña Ruiz, l’ultimo presidente della repubblica spagnola quando nel pieno della guerra civile scrisse che da quel conflitto sarebbe venuta fuori solo una dittatura: o fascista o comunista, ma non più una Spagna democratica. Quando a combattersi sono le ideologie, la prima sconfitta è sempre la libertà. In questo i filosofi sono sempre individui pericolosissimi quando inseguono le loro aeree visioni. Platone e Campanella rimasero illibati perché venne impedito loro di realizzarle, ma quando invece riescono a porvi mano, allora non c’è tirannia peggiore che venga edificata, come hanno mostrato i diversi intellettuali al potere nella geografia del Novecento.
Il Manifesto lo inquadrai come il detrito di una ideologia ormai rottamata dalla storia
Il Manifesto quindi lo inquadrai così, come il detrito di una ideologia ormai rottamata dalla storia, con dentro tutta la retorica che per mezzo secolo aveva gareggiato con il fascismo per fare dell’Europa un pugno di cenere. C’era proprio di tutto, appena appena annacquata da una spruzzata di liberalismo: dagli echi della dittatura del proletariato all’abolizione della proprietà privata, dalla distribuzione egualitaria della ricchezza al dispotismo del partito unico fino ai miraggi mai deceduti del socialismo reale. In quelle righe mi scorrevano davanti, neanche tanto camuffati, i miti di un mondo deteriore che mentre in Italia avevano portato al confino i tre sottoscrittori poco più a Est, dove avevano vinto la loro battaglia, stavano invece facendo vittime in maniera massiccia (per molti versi, anche se non è elegante dirlo, fu proprio Mussolini che consentì a molti comunisti italiani non del tutto in sintonia con il partito di cavarsela con il confino mentre in Russia avrebbero avuto ben altro destino).
Concordi con studiosi di politica come Galli della Loggia
Ci sentiamo pertanto concordi con studiosi di politica come Galli della Loggia che lo stroncò poi in pieno come un rottame giacobino-leninista: “È abbastanza sorprendente che schiere di esponenti politici, presidenti del Consiglio, vertici della Banca d’Italia, giornalisti di grido – i quali oggi si batterebbero come leoni perché neppure un decimo dei propositi suddetti si realizzasse nei propri paesi, e che quasi sempre sono autori di una costruzione europea realizzata su basi del tutto opposte – è abbastanza sorprendente, dicevo, che a scadenza fissa persone di tal genere ostentino invece una devozione encomiasticocelebrativa di maniera verso i propositi giacobini di Spinelli, Rossi e Colorni, elevati a Magna Charta del federalismo continentale”.
Quindi come tutti i simboli che non vanno visti troppo da vicino e sono circondati da una certa sacralità, anche il Manifesto di Ventotene crediamo sia più citato e ammirato che realmente letto e meditato da quelli che lo agitano nelle sfilate. E crediamo che il prestigio dei suoi autori più che nella profondità di pensiero vada spiegata nel fatto che viviamo in un paese dove a ottanta anni dalla fine del conflitto ancora si vede agitare in giro il simbolo del ANPI il cui presidente è nato dopo che la guerra era già bella che finita.
Crediamo però che spiegarlo sarebbe compito del mondo intellettuale. Ma in un paese che campa di falsi miti andare dicendo che il re è nudo, anche se questo gira nudo da tempo senza che nessuno sembra volersene accorgere, è ormai un atto terribilmente audace, e quindi abbiamo l’intellettualismo che ci meritiamo. Ma non è invece compito della politica. Andare a sminuire il Manifesto sui banchi governativi è invece un’operazione scioccamente provocatoria, o quantomeno ingenua e significa accendere inutilmente i risentimenti di una buona parte della nazione e alimentare contrapposizioni, e condire tutto, e se non sappiamo se è il peggio, con le lacrime e le solite accuse di fascismo a cottimo di un certo intellettualismo che dietro quei miti è cresciuto. La Presidente, invece di esaminare quel testo avrebbe dovuto piuttosto leggere Machiavelli quando scriveva che la religione in uno Stato è fondamentale non per il suo contenuto di verità ma per il suo valore sociale che ha una straordinaria forza coesiva. A guardare con la lente di ingrandimento i miti che lo sorreggono, dalle imprese dei Mille agli eroismi partigiani giù giù fino al sangue di San Gennaro si rischia si rimanere in mano con un pugno di polvere, e andare a gridarlo in giro è operazione politicamente suicida e dissacrante verso quella retorica nazionalista di cui il popolo ha bisogno per sentirsi al caldo. Se quello Stato scegli di rappresentarlo non puoi permetterti di distruggerne i miti dietro cui si regge in maniera già traballante scoperchiando il lenzuolo che li copriva senza dare un’alternativa in cambio. Specialmente in una nazione che una sua coesione non la ha mai avuta e si sente unita solo durante il Festival o quando gioca la nazionale.