Tribunale di Reggio Calabria, prof dell’UNIME interviene sul caso degli addetti all’ufficio per il processo

Secondo il prof. Dario Caroniti nella “smentita” di ieri da parte di un gruppi di addetti all'ufficio del processo del Tribunale di Reggio Calabria si legge la conferma di quanto affermato dall’on. Calderone

StrettoWeb

Nelle scorse settimana sulle pagine di StrettoWeb abbiamo posto l’accento sul caso sollevato dall’onorevole Tommaso Calderone, in merito agli addetti all’ufficio del processo demansionati e costretti a fare da assistenti. Calderone ha avanzato un’interrogazione parlamentare chiedendo al ministro Nordio di disporre ispezioni negli uffici giudiziari italiani, tra cui anche quello di Reggio Calabria.

Dopo i nostri due articoli sul tema il presidente della Corte d’Appello di Reggio Calabria, Bruno Muscolo, ha persino indetto una conferenza stampa per fare delle precisazioni in merito. A riprova del fatto che il caso della gestione degli addetti all’ufficio del processo è tema caldo. E la questione non si è conclusa così.

La replica di alcuni addetti all’Ufficio per il Processo in servizio al Tribunale di Reggio Calabria

Ieri abbiamo infatti ricevuto e pubblicato integralmente, come nostra prassi, una nota stampa da parte di due rappresentanti degli addetti all’ufficio del processo. Nella nota, che secondo gli scriventi è stata sottoscritta da 69 “Funzionari addetti all’Ufficio per il Processo in servizio al Tribunale di Reggio Calabria“, si prova a confutare quanto rappresentato dall’onorevole Calderone.

In merito, oggi, abbiamo ricevuto un’interessante riflessione da parte del prof. Dario Caroniti, docente dell’Università di Messina, già assessore comunale della città siciliana. Anche in questo caso, pubblichiamo la nota integralmente, certi che ogni tassello possa essere utile a fare chiarezza in questa intricata vicenda sulla quale pende, come una spada di Damocle, l’ombra lunga e nera del precariato.

La lettera del prof. Caroniti

Caro direttore, ho seguito con interesse gli articoli che sono stati pubblicati dalla vostra testata, alla quale mi pregio di avere collaborato, sull’utilizzo presso il Tribunale e la Corte di appello di Reggio Calabria degli addetti all’ufficio del processo non in linea – secondo la tesi contenuta nell’interrogazione del deputato Tommaso Calderone – con il profilo professionale previsto dalla legge.

Mi ha stupito e non poco che il presidente della Corte d’appello, dott. Bruno Muscolo, nei giorni scorsi abbia sentito anche la necessità di convocare una conferenza stampa per smentire quanto apparso sulla vostra testata: un evento che, credo, non abbia precedenti nella storia giudiziaria di questo Paese.

Ieri, in apparente sostegno, o almeno queste sembra fossero le intenzioni, alla rispettabilissima tesi del presidente Muscolo, è stata da Strettoweb pubblicata una lettera redatta da alcuni addetti all’ufficio del processo del Tribunale di Reggio. Essi dicono di averla soscritta in 69, ma nessuno dei loro nomi appare nell’articolo stesso. Personalmente, son stato per alcuni anni assessore comunale della città di Messina, e per altri 5 ho presieduto l’ufficio Placement dell’università di Messina. Ho fatto quindi diretta esperienza di come il precariato (e precari sono gli addetti all’ufficio del processo) nel mondo del lavoro costituisce una formidabile spinta all’autoritarismo ed è appunto per questo che non mi stupisce che siano stati gli stessi loro addetti stampa a provare a smentire – non si capisce a che fine – l’interrogazione che li voleva tutelare.

La cosa che, tuttavia, sorprende di più, è che in questa “smentita” si legga invece la conferma di quanto affermato dall’on. Calderone nella sua interrogazione: gli addetti all’ufficio del processo dichiarano con sorprendente candore che loro non si sono mai sentiti “costretti” a svolgere mansioni inferiori e, comunque, diverse, da quelle previste dal loro contratto, ma non negano affatto la circostanza. Al contrario, hanno sostanzialmente ammesso di avere svolto attività integrative per il bene dell’ufficio e, si presume, dette attività siano state richieste dai loro superiori.

Per cercare di spiegare come questa affermazione esprima una sua gravità, se il dirigente di un ufficio chiedesse a un amministrativo suo dipendente di prendere scopa e paletta per andare a pulire la sua stanza, quello specifico servizio non sarebbe contrario all’interesse dell’azienda, perché le pulizie andrebbero comunque svolte, ma sarebbe lesivo della dignità del lavoratore, assunto per svolgere altre e specifiche attività, inerenti alla sua formazione, cultura e capacità professionale. Bisogna quindi chiedersi: potrebbe il dipendente rifiutarsi? Certamente, ma si esporrebbe, specie se nella condizione di precariato, che discende dall’avere un contratto non a tempo indeterminato, dalle possibili ritorsioni del superiore in grado e, comunque, dal non avere il suo sostegno nel possibile rinnovo contrattuale. Questo determina una condizione di sudditanza, che la legge e i regolamenti sindacali cercano di evitare, tutelando appunto i lavoratori da quello che si definisce demansionamento, e che è l’oggetto, tra l’altro, della interrogazione dell’on. Calderone.

La seconda sorpresa deriva dall’ammissione degli stessi di avere avuto il sostegno di 69 colleghi. E gli altri? A meno che il totale non coincida coi sottoscrittori, si deve presumere che quanti non abbiano voluto firmare, non solo abbiano svolto mansioni inferiori, magari oltre l’orario di lavoro, ma l’abbiano fatto perché “costretti”. A questo punto una certa inquietudine coglie il lettore, tanto che appare necessario e urgente conoscere i nomi e i cognomi dei sottoscrittori. Essi sono senz’altro noti a chi avrebbe richiesto loro di effettuare il lavoro straordinario, per quanto volontario, proprio perché svolto per assecondare la superiore richiesta, ma sono ignoti al lettore, che potrebbe pensare che potenzialmente tutti i dipendenti siano d’accordo, mentre la sola ipotesi che il consenso sia limitato a un massimo, dichiarato di 69, solleva ipotesi inquietanti che vanno urgentemente chiarite sia dai redattori della nota, per non passare per millantatori, sia soprattutto dalla redazione del giornale, che ha il merito di avere sollevato il problema nell’opinione pubblica reggina, ma adesso ha, secondo me, il preciso dovere di fare chiarezza.

La libertà è un bene prezioso è va favorita e incoraggiata. Ma la libertà è coraggio e responsabilità. Non vedo perché il lettore non debba sapere chi ha deciso di smentire colui che intendeva – latu sensu – tutelarli. E non abbia considerato questo come una condizione essenziale di civiltà, a tutela di coloro che fanno parte della stessa categoria di addetti all’ufficio del processo in servizio al Tribunale ma la pensano in maniera diversa e hanno diritto che non vengano – grazie all’anonimato – associati dai lettori a chi invece ha inviato la nota“.

Chi ha firmato la nota?

E a questo punto la nostra redazione, conscia fin dal primo momento del fatto che a fronte dei 69 sottoscrittori della lettera (la mail era firmata da sole due persone che si sono fatte portavoce degli altri 67) vi sono almeno altri 20 addetti che hanno deciso di non firmare, fa proprio il dubbio del prof. Caroniti e si chiede quali siano i nomi di coloro che hanno firmato la nota stampa. I cui contenuti, a conti fatti, non rappresentano tutti gli addetti all’ufficio del processo attualmente in servizio al Tribunale di Reggio Calabria.

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