“Conoscevo le telecamere e i nomi di chi le metteva”: l’arroganza di Messina Denaro e l’inquietante interrogatorio dei pm

Stanno emergendo particolari sempre più inquietanti dalle dichiarazioni rilasciate da Matteo Messina Denaro durante l'interrogatorio di febbraio scorso

StrettoWeb

Dopo che le dichiarazioni di Matteo Messina Denaro ai magistrati sono state rese note c’è stupore, c’è indignazione. Ma perché stupirsi se un conclamato mafioso dice “io non sono un mafioso, non sono un assassino. Sono stati altri ad uccidere Giuseppe di Matteo“? Cosa potrebbe fare di diverso uno che ha vissuto tutta la sua vita pensando che l’associazione mafiosa sia l’unico modo degno di vivere? E’ nato da un padre mafioso, si è circondato di mafiosi e lui stesso era mafioso. Potrebbe mai dire: sì, mi pento perché ho sbagliato? Chi lo ha fatto, in passato, si è pentito quasi sempre per opportunismo, per avere uno sconto di pena. E spesso ha funzionato. Ma a Matteo Messina Denaro non interessa lo sconto di pena: probabilmente sta per morire, e non ha nulla da perdere.

La sua arroganza e la sua strafottenza, checché se ne dica, sono emerse in maniera prepotente. Tra le tante cose che ha detto ce n’è una che dovrebbe far riflettere, se non altro per comprendere l’enorme mancanza di rispetto che chi conduce una vita come Messina Denaro ha nei confronti di chiunque, forze dell’Ordine in primis. “Tutte le telecamere di Campobello di Mazara (Trapani, ndr) e Castelvetrano (Trapani, ndr) le so…“, ha riferito spavaldo ai pm. E se si pensa che il servizio di videosorveglianza pubblico del comune non ha, casualmente, funzionato per anni per poi essere riattivato dopo l’arresto del boss, ecco che il quadro degradante è completo.

I nomi di chi piazzava le telecamere

Messina Denaro dice inoltre di conoscere pure i nomi di chi lo cercava. Nell’interrogatorio del 13 febbraio scorso, ai pm di Palermo Maurizio de Lucia e Paolo Guido il boss nega qualsiasi rapporto di tipo istituzionale con pezzi deviati dello Stato.

L’ex superlatitante parla di un appuntamento col fiancheggiatore Andrea Bonafede, l’uomo che gli prestò l’identità: “Io – dice – ci sono andato al posto di lavoro, anche perché se ci andavo a casa mi arrestavate, perché c’era la telecamera che guardava a casa sua“. Chiede il procuratore de Lucia: “E lei lo sapeva”. Messina Denaro risponde: “Tutte le telecamere di Campobello e Castelvetrano le so, primo perché ho l’aggeggio che le cercava, che non l’avete trovato e poi perché le riconosco“.

Ovviamente alla domanda su dove si trovi “sto aggeggio“, il detenuto replica in modo vago, per poi andare subito nello specifico: “Lo tenevo in un altro posto. E poi perché le riconosco, le telecamere. Le spiego come funziona: c’era pure un’altra cosa. Molte di queste telecamere quando le piazzavano, perché all’inizio quando iniziarono erano tutte di notte, poi anche di giorno, c’era un segnale: il maresciallo dei Ros (ne dice il cognome, ndr), c’era sempre lui appena si vedeva… con due, tre fermi in un angolo già stavano mettendo una telecamera, anche se ancora non avevano messo mano“.

I troppi fiancheggiatori

Dunque, il latitante e la sua cerchia di fiancheggiatori conoscevano i nomi degli investigatori di punta dei carabinieri del Ros,  il che dimostra i pericoli corsi da chi ha indagato in prima linea. Uno di questi, lo ricordiamo, morì mentre piazzava una telecamera. “Vabbè, ma lei non è che era sempre in giro“, gli dicono i magistrati. E lui: “No, me lo dicevano“. Chi? “Amici miei che non dico“. Amici che sapevano chi era Messina Denaro però, insiste l’accusa. Risposta: “Certo, è normale questo, è normale“. Insiste il procuratore aggiunto Guido: “Quindi c’era tanta gente che sapeva chi era lei“. E Messina Denaro: “Ma il punto è che molti ve li siete portati (arrestati, ndr)”.

E meno male, non resta che aggiungere. Molti “se li sono portati“, ma chissà quanti non verranno mai individuati e resteranno lì, magari a fare parate antimafia, dopo aver protetto un boss latitante per anni.

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