L’America contro se stessa

Donald Trump ha già vinto la rielezione alla presidenza degli Stati Uniti: egli l’ha vinta di fronte alla storia

StrettoWeb

Anche se dovesse perdere, Donald Trump ha già vinto la rielezione alla presidenza degli Stati Uniti: egli l’ha vinta di fronte alla storia.
Lo dico non come ha fatto un ex grande direttore del Tg3 – per anni corrispondente della RAI dagli Stati Uniti e pertanto pretendente al titolo di esperto della politica americana – che intendeva non tanto felicitarsi per lo scampato pericolo ma per far notare come l’attentato in sé facesse il gioco di Trump. Una osservazione stupida come stupido è il sospetto messo in giro dai ‘soliti ignoti’ che sia stato Biden a ordinare l’attentato. No. Biden non ne sarebbe stato capace e non solo per la sua senilità.

Odio e delegittimazione

Dopo l’attentato a Trump, il Presidente Biden nel suo appello all’unità della nazione americana ha pure detto che il movente del tentato assassinio non si conosce ancora. Mi permetto di dissentire e di suggerire quella che a me sembra l’ipotesi principale: odio e delegittimazione. L’odio a prescindere; l’odio disseminato contro Trump da una coalizione di ‘sinceri democratici’ che hanno fatto della delegittimazione lo strumento principale della loro proposta politica mettendo in campo pornostar e giudici i quali, invece di perseguire la pornostar per estorsione, hanno trovato più conveniente – politicamente – prendersela con Trump: la lotta politica negli Stati Uniti non si è più svolta sul terreno delle scelte politiche, soprattutto a causa di un mutazione genetica pilotata genere in corso soprattutto nel Partito Democratico americano, il cui progressismo si è ormai ridotto al tema dell’aborto e della galassia lgbqt. Una mutazione di cui nessuno può compiacersi.

Democrazia Americana

In America oggi è in gioco molto di più delle stravaganze e degli errori comportamentali di Trump o del sonno di Biden. È in gioco la tradizione della democrazia americana che poco ha a che fare con la politica della delegittimazione giudiziaria dell’avversario. Non c’è un qualsiasi analfabeta al mondo che non parli spregiativamente di Trump chiamandolo tycoon senza sapere cosa la parola significhi; non c’è difensore del ‘libero amore’ e teorico dei diritti lgbqt che non si scandalizzi per le avventure di letto, vere o presunte, attribuite a Trump: uno scandalismo ipocrita e simile a quello che si usò per attaccare Berlusconi, che qui cito per ricordare come, in Italia, i paragoni tra i due ‘tycoon’ abbiano fatto sprecare fiumi d’inchiostro ai grandi giornali. Su Trump pende la taglia del 6 gennaio 2021 quando, al culmine della sua battaglia giudiziaria per il ricontrollo del risultato elettorale del novembre 2020, una folla di scalmanati assalì Capitol Hill.
In quella occasione, anch’io scrissi che Trump non avrebbe dovuto dare alcun appiglio ai suoi detrattori per accusarlo di voler, non dico capeggiare, ma solamente chiudere gli occhi sui riot popolari e che, quindi, egli avrebbe dovuto prenderne le distanze in modo convincente. Da qui a farne un capo d’imputazione capitale ne corre molto: per quanto le proteste di Trump sui brogli elettorali potessero avere eccitato gli animi dei ‘sciamani’ di Capitol Hill, accusarlo di aver organizzato la presa del Congresso fa la pari con l’accusa che è stata rivolta da qualcuno a Biden di avere ordito l’attentato contro Trump.

Radical chic nostrani

Ai radical chic nostrani non parve vero allora di avere contro Trump un argomento più forte di quello dell’idrossiclorochina e del ciuffo biondo dei capelli ’ribelli’, che avevano fino ad allora usato quale prova indiscutibile di una tendenza parafascista di Trump. Dopo l’attentato, in un dibattito televisivo raffinato e brillante – diretto da conduttori di talk-show altrettanto brillanti per faziosità, che vanno ‘in onda’ per quasi tutte le nostre sere estive alzandone ancora la già alta temperatura – Gad Lerner, con la sua solita faccia schifata, ha avuto pure l’intelligente e generosa intuizione di avvertire gli eventuali ingenui che volessero anteporre il valore della vita al giudizio politico-morale sulla persona nel ‘mirino’ a non cadere nella trappola umanitaria: «non vorrete fare di Trump una vittima? Se così fosse allora anche Hitler dovrebbe essere considerato tale quando, nel luglio del ’44, gli misero una bomba sotto il tavolo”. Ergo: Trump doveva essere ucciso.

Approfondire le indagini

A parte l’evidente insufficienza delle misure di sicurezza adottate a Butler per proteggere Trump, mi sembra curioso che nessuno oggi invochi l’approfondimento delle indagini che giustamente fu preteso per l’assassinio dei fratelli Kennedy; mi sembra curioso che l’attentatore di Trump, che si era mosso con assoluta libertà fino al momento delle fucilate, sia stato ucciso quasi immediatamente battendo il record dell’eliminazione di Lee Oswald, l’assassino di Kennedy, ucciso solo dopo due giorni mentre era nelle mani della polizia di Dallas. L’attentato a Trump è la conseguenza naturale della lunga crisi che si è aperta nel 2016 in seguito alla vittoria di Trump e alla sconfitta degli obamiani-clintoniani i quali – per nascondere la débâcle dietro il paravento di ipotetiche manovre russe per impedire che a vincere fosse Hillary Clinton – tentarono in primo luogo di inchiodare il vincitore all’aiutino che gli sarebbe venuto dalla mano di Putin.

Accusa infondata

Come abbiamo saputo dopo anni di indagini, estese e rumorose, svolte dal FBI e dal Congresso, l’accusa era infondata ma, nonostante ciò, non è stata mai ritirata e continua a circolare soprattutto in Italia. Per di più, e sebbene infondata e smentita, essa ha avuto effetti devastanti: anziché delegittimare Trump ha finito per gettare l’ombra di un sospetto grave sulla più antica e vera democrazia – che, per fortuna, è ancora viva nel nostro mondo – insinuando che, se anche quella americana non solo è soggetta alle manipolazioni fisiologiche degl’interessi che la abitano ma anche è supina a quelle del nemico esterno, allora è meglio affidarsi ai despoti illuminati anziché a presidenti eletti, ma assonnati. Il sospetto che il sistema elettorale americano fosse permeabile all’influenza di Mosca è più grave perfino di quanto sarebbe stato quello di aver preso soldi da Putin: la democrazia americana, come qualsiasi altra, non può eliminare i corrotti, certo però non può fare a meno di se stessa.

Trump tuttavia non ha ancora scampato il pericolo di vedersi accusato anche di questo crimine perché, di solito, la magistratura di tutte le latitudini è monocolo: si veda in Francia l’inchiesta giudiziaria che è stata aperta ora contro la Le Pen o quella che si è tentato di aprire contro Salvini e la Lega per i presunti finanziamenti da Mosca. Certo, ora sono altri tempi; i giudici non sono più ibernati dal muro di Berlino sicché mai nessuno aprì un’inchiesta contro il PCI, questuante abituale davanti alla porta di Ponomarêv con i leader comunisti italiani pendolari per prendere ordini da Mosca e ottenere i bonifici miliardari ordinati da tutti i capi sovietici, da Stalin a Gorbachov, il quale cessò di finanziare i compagni occidentali soltanto perché l’URSS si era ridotta con le pezze nei pantaloni.

Il tentativo di delegittimarlo che ha dato a Trump un nuovo consenso

In realtà è il tentativo di delegittimarlo che ha dato a Trump un nuovo consenso che pare possa essere travolgente. D’altra parte, una critica ai suoi programmi politici sbrigativamente liquidati come populisti e sovranisti serve a mio avviso assai poco perché offrono soluzioni reali a problemi reali; criticabili quanto si vuole, non pare che i democratici americani siano in grado di offrire soluzioni diverse e migliori.
In realtà le politiche di Trump non sono affatto liquidabili spregiativamente con gli epiteti, abusati, di ‘populismo’ e ‘sovranismo’/nazionalismo e, dunque, fascismo. Ricordo che, durante la campagna elettorale per le elezioni presidenziali del 2020, uno degli attacchi più rutilanti contro Trump fu quello che molta della cosiddetta stampa progressista gli portò quando il Presidente, allo scadere del suo mandato, nominò un giudice della Corte Suprema in sostituzione di Ruth Bader Ginsburg, la giudice ‘progressista’, femminista, abortista, etc., etc., nominata da Bill Clinton nel 1993 proprio per queste sue ‘qualità’ politiche.

Apriti cielo! Molti che, specialmente in Italia, ignorano le modalità, la logica, le articolazioni e la prassi del potere costituzionale negli Stati Uniti, hanno dato fondo al loro arsenale seppellendo Trump sotto l’accusa infamante di volere profittare degli sgoccioli del suo potere per condizionare con la nomina di Amy Coney Barrett la Supreme Court per i prossimi decenni: per esempio, il ‘Corriere della Sera’, con grande accuratezza storica, definì Trump un epigono di Mussolini. La sinistra italiana usa infatti la vicenda e la politica di Trump per attaccare la destra italiana al governo: la Schlein & co. agitano lo spettro del trumpismo incessantemente e confusamente con la stessa ossessività con cui agitano quello del fascismo.

Qualche anno fa, Paolo Mieli ha avuto l’onestà intellettuale di darci, sempre sul ‘Corriere della Sera’, l’inventario “di piccoli e grandi misfatti commessi in campo antitrumpiano”. una sorta di ‘maccartismo di sinistra’ che ha colpito chiunque non fosse allineato, ma anche meno allineato, con il ‘main stream’ giornalistico antitrumpiano.
E non sono liquidabili non tanto per la base elettorale su cui egli poggia ma perché, più semplicemente, il suo successore non potette abbandonare quelle politiche (così come lo stesso Clinton non abbandonò quelle di Reagan) né avrebbe potuto se non al prezzo di un tracollo della potenza economica e politica degli Stati Uniti.

Biden

Del resto, Joe Biden vinse la presidenza con una campagna elettorale molto astuta e mimetica: oltre che a delegittimare Trump, il suo programma politico mirava infatti a impossessarsi almeno in parte di quello trumpiano con riguardo alla politica economica, fiscale e salariale (paga minima oraria a 15 dollari; ‘penali’ molto severe alle aziende che decidessero di ‘delocalizzare’ i propri stabilimenti di produzione; congelamento del progettato Medicare for all, che intendeva fondare un servizio sanitario nazionale, perno dell’Obamacare: il congelamento dura ancora dopo i quattro di presidenza democratica: infatti, l’idea obamiana era palesemente incostituzionale perché avrebbe violato la sfera di competenze riservate ai singoli stati).

Quanto alla politica estera, il multilateralismo obamiano, sbandierato da Biden in opposizione al cosiddetto unilateralismo trumpiano, è stato abbandonato subito dopo la sua elezione, non solo perché si era infranto in una serie di fallimenti e in un’incessante ritirata a fronte di iniziative bellicose come quella della presa della Crimea, consentita la quale si dette l’impressione a Putin di avere mano libera per la restaurazione del suo impero. Se Obama e la Clinton avessero allora almeno tentato di fermare il satrapo di San Pietroburgo, forse la guerra ucraina non ci sarebbe stata.

Disastro afghano di Biden

Non si può non ricordare il disastro afghano di Biden, cioè il ritiro improvviso delle truppe americane senza prima avere tentato di mettere in sicurezza quel paese; Trump invece aveva condizionato il ritiro americano dall’Afghanistan non solo a questa inderogabile esigenza di sicurezza ma anche, guardando a tutto il quadro mediorientale, al contemporaneo rafforzamento complessivo delle alleanze americane nell’indo-pacifico nonché al rafforzamento della posizione di Israele stabilendo nuovi rapporti di questo paese con i suoi vicini arabi e isolando l’Iran: l’attuale guerra di Gaza ha dato regione a Trump e a chi, in Israele, temeva che invece Biden potesse seguire una vecchia, e pericolosa, falsariga obamiana di pratica accettazione (con l’accordo JCPOA) di uno sviluppo del potenziale nucleare iraniano, della istituzione di uno stato palestinese anche a prescindere dalla sicurezza di Israele e, soprattutto, facendo intendere di essere pronto a una revisione delle alleanze americane tradizionali in quell’area.

E ciò vale anche per il rapporto euro-atlantico: se è vero che Trump, tentando di ristrutturare il rapporto con l’Europa (NATO e UE), in atto tutto a carico degli Stati Uniti sia sul piano politico che su quello finanziario, ha dato l’impressione di volere indebolirlo, è pure vero che, non da ora, gli Stati Uniti si sono trovati di fronte al muro di gomma opposto da Germania e Francia, più interessate a stabilire un’alternativa all’atlantismo e a perseguire un proprio sogno egemonico in Europa costruendo un rapporto autonomo con Cina, Russia, Medio Oriente.
Sulla politica migratoria, Biden ha dovuto stare molto attento a non aprire troppo le porte e a proseguire, se non apertamente almeno sottobanco, la politica di Trump che, in fondo non era altro che il tentativo di applicare fino in fondo il ‘Secure Fence Act’ – votato nel 2006 anche dal sen. Obama insieme con la sen. Hillary Clinton e altri 25 senatori democratici – che prevedeva il proseguimento della costruzione di un muro al confine messicano al fine di controllare l’immigrazione clandestina e il contrabbando di droga: muro che, da presidente, Obama non abbatté forse in omaggio a Bill Clinton che ne aveva iniziato la costruzione.

Se ora, per le sue condizioni di salute, Biden sarà costretto a rinunciare alla candidatura, può darsi che chi, tra i democratici, ne prenderà il posto possa avere qualche chance in più per vincere contro Trump ma certo non avremo una politica migliore. Anzi … se prevalesse la tentazione della successione dinastica, se – dopo il primo esperimento della candidatura di Hillary Clinton, moglie di Bill – si cedesse alla tentazione di candidare la Michelle Obama in ragione soltanto della sua qualità di moglie di Barack, del suo sesso e del colore della pelle, allora dovremo prendere anche atto di una crisi grave della democrazia americana.

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