A me non piacciono le celebrazioni post mortem, ma non posso fare a meno di ricordare il Cardinale per eccellenza, appunto Martini. Ho avuto il privilegio di conoscere personalmente Carlo Maria Martini, quando, nei primissimi anni ottanta, invitato dal suo amico, gesuita anch’egli e all’epoca Padre Superiore a Reggio Calabria, s.j. Vincenzo Insolera, ha tenuto nella bella Chiesa degli Ottimati una conversazione che custodisco registrata e di tanto in tanto riascolto. Con raffinata eleganza e con tanta umiltà rendeva semplici anche gli argomenti più complicati, questo religioso che comunicava anche senza parlare. Il suo solo aspetto esprimeva serenità e forza e faceva percepire un sapere vastissimo, mai ostentato, ma sempre disponibile. Teologo e pastore, riusciva spontaneamente a parlare al cuore di tutti rispettando la libertà dell’altro senza mai assumere atteggiamenti cattedratici. Innamorato di Gerusalemme, la Città Santa, riviveva in quei luoghi il messaggio evangelico più originale e autentico; e senza pose e senza infingimenti ipocriti ha sempre espresso il prorpio pensiero , anche se in antitesi con le posizioni della Chiesa ufficiale, aspetto, questo, che ai miei occhi lo ha reso ancora più autentico e vero. Mai appagato era sempre impegnato nella ricerca antropologica dell’uomo e dell’umanità intera, in un percorso di conversione permanente; e forse è proprio il messaggio della necessità di rivedere, di riconsiderare continuamente il proprio essere cristiani che più mi ha interessato e tuttora mi intriga. Perchè il cristiano spesso assume un atteggiamento presupponente di certezza statica e passiva rifiutando confronti e possibilità di cambiamenti delle cosiddette “regole” esslesiastiche, quando invece, secondo me, il cristianesimo è soprattutto ricerca interiore nel percorso dinamico del singolo inserito nei mutamenti sociali di civiltà in cammino.
Io spero vivamente che il pensiero di Martini non venga strumentalizzato politicamente, come ormai spesso si usa malamente fare in Italia, perchè la sua figura e il suo pensiero non possono e non devono essere travisati.
Per quanto riguarda il cosiddetto accanimento terapeutico, come ho altre volte affermato, credo che sia un aspetto della vita umana troppo intimo e familiare e che, quindi, non possa essere regolato per legge. Bisogna accettare il fatto che l’essere umano sulla terra svolge un ciclo del quale fa parte la morte; scegliere di praticare a se stessi o ad altri cure impossibili per mantenere in vita o non farlo è un fatto squisitamente privato, che comprende una serie di valutazioni relative a situazioni diverse, che, a mio parere, non possono essere schematizzate e costrette in ambiti legislativi.
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