Ceccato 98 – I “morticeddhi”

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ceccato 98di Enzo Cuzzola – Era il pomeriggio di mercoledì 30 ottobre del 1963, giornata splendida e calda, quando papà, che sapeva piacermi, mi chiese di scendere con lui a Reggio, per il solito giro settimanale di ordini e pagamenti, presso i grossisti che lo rifornivano. Partimmo subito dopo pranzo, a “cavallo” della Ceccato 98. Io sull’ormai noto sellino posteriore in ferro, la cui scomodità, se pur riusciva a farmi venire la voglia di crescere, ragion per cui ogni volta sceso dalla moto non mi sedevo per un po’ di tempo, non riusciva a scoraggiare la voglia di scendere in città.

Il solito giro tra i diversi fornitori, piazza Carmine per i mangimi, i formaggi ed i salumi, il porto ed il ponte della Libertà per la pasta, ci consentirono la solita sosta al panificio Liconti, dove papà mi comprò il solito panino al burro, una goduria. Notai la vetrina, stranamente, piena di frutta variopinta. Cosa c’entrava la frutta nella vetrina del forno pasticceria? Fu solo avvicinandomi che, per la eccessiva lucidità, mi resi conto che non si trattava di vera frutta. Sulla via del ritorno chiesi a papà del perché di quella finta frutta. Mi spiegò che si trattava di frutta martorana, cioè di marzapane, meglio dolcini di mandorla con la forma ed il  colore della frutta. Avrei voluto assaggiare volentieri quei dolcini, ma, pensando che forse papà non aveva avuto danaro a sufficienza per comprarli, non dissi nulla, per non mortificarlo.

Il venerdì successivo era festa di Ognissanti, a pranzo, conversando con tutta la famiglia, chiesi a zio prete se avesse mai assaggiato la frutta martorana. Confermò di sì, aggiungendo che la aveva mangiata fin da piccolo, tutti gli anni in occasione della ricorrenza dei defunti. Quella frutta si poteva mangiare solo dopo giorno 2 novembre, provai sollievo, comprendendo il perché papà non l’ aveva comprata. Mi spiegò che, nella notte tra l’uno ed il 2 novembre, bisognava lasciare sulla tavola una brocca di acqua ed un bicchiere, i nostri cari defunti, cioè i nostri parenti più intimi che erano andati in Paradiso, sarebbero passati a farci visita e, se noi bambini di casa eravamo stati bravi, avrebbero bevuto un sorso d’acqua e lasciato in dono “i morticeddhi”, cioè la frutta martorana.

Quella notte il sonno fu agitato, infatti tra l’incuriosito e l’impaurito rimasi sveglio, sperando di sentire qualche rumore, magari dell’acqua versata dalla brocca nel bicchiere. Nulla, mi addormentai che era quasi l’alba. Al risveglio, verso mezzogiorno circa, vidi la brocca semi vuota. Ma non vidi segno dei dolcini. Strano, se fossi stato cattivo non avrebbero bevuto, allora perché niente dolcini?

Zio prete si era alzato di buon ora per andare a celebrare le Messe in suffragio dei defunti, al cimitero di Condera, del quale come sappiamo era il cappellano. Lo aveva accompagnato mio fratello Pasquale, alzandosi stranamente di buonora, per fare da chierichetto. Tornarono con l’autobus dell’una. A pranzo raccontarono che le offerte erano state generosissime, sia per il celebrante, sia per il chierichetto, il che mi fece comprendere l’entusiasmo di Pasquale, nell’alzarsi all’alba. Zio prete lamentava che la gente facendo celebrare una Messa per i defunti, magari lasciando una offerta consistente, ed andando al cimitero una volta l’anno, si metteva la coscienza a posto. Invece, secondo lui, i cari defunti andavano ricordati tutti i giorni nella preghiera, magari dedicandogli un “Eterno riposo”. Mi chiese se io lo avessi fatto. Risposi di sì.

Al che mi disse che i nostri “morticeddhi” lo avevano confermato. Infatti gli avevano fatto trovare in sacrestia un piccolo vassoio, che estrasse dalla borsa nera che portava sempre con sé, era frutta martorana. Ma c’era anche un bigliettino con scritto “grazie per il ricordo che ci dedichi nelle tue preghiere, nonno Paolo e nonna Genoveffa, nonno Pasquale, zio Nato”.

Ero felice, quei dolcini erano bellissimi da vedere e buonissimi da mangiare, ma soprattutto mi sembrava di avvertire la calorosa presenza di chi non c’era più.

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